Abruzzo e la cultura del cibo tra storia e tradizione

Il vino in Abruzzo
Come è stato ben documentato dai vari scritti dei poeti greci e latini, le origini del vino risalgono ai tempi dell’impero romano, ancor prima della nascita di Cristo, sebbene i romani non si occupavano della produzione in maniera accurata che, a causa dell’alta gradazione, li costringeva a diluire l’acqua nel vino. I primi dibattiti scientifici riguardanti la viticoltura ci furono in Toscana nel corso del 1600.

[…] Il vino è licore d’altissimo magistero composto di umore e di luce, per le cui virtù l’ingegno si fa illustre e chiaro, l’anima si dilata, gli spiriti si confortano e le allegrezze si moltiplicano […]

Così Galileo Galilei parlando di licore spiegava il concetto di “umore e luce”, sottolineando il forte legame tra elementi naturali e produzione del buon vino. Il Montepulciano è di certo il vino che rappresenta l’Abruzzo per la sua qualità e tradizione, tanto che le sue prime produzioni risalgono alla seconda metà del Settecento in Valle Peligna e nell’entroterra pescarese. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento la produzione si è estesa a tutta la fascia collinare litoranea. Tali vigneti possono essere lavorati nelle zone collinari di altopiano non superiori ai 500 metri s.l.m. e a 600 metri s.l.m. quando esposti a mezzogiorno. Il Montepulciano rappresenta l’80% della produzione di vino abruzzese ed è tra i primi tre vini DOC italiani. Il Cerasuolo d’Abruzzo, variante del vino rosso, si caratterizza per il colore rosato e per una buona acidità. Si ottiene vinificando le uve in bianco oppure limitando la fermentazione a poche ore in presenza delle bucce. Le prime tracce del Trebbiano in Abruzzo si hanno nel XVI secolo nel Fucino e nell’area Peligna, quando il vino si otteneva da uve Trebulanum.

L’alternanza di piovosità, insolazione e ventilazione offre alla vite un microclima ideale per vegetare e produrre uva di altissima qualità. In passato, il processo della vendemmia consisteva nello staccare i grappoli (l’racceple) dai più grandi ai più piccoli (gli schiantarelli) e metterli in cesti (canistr) evitando di schiacciare gli acini per essere poi versati in bigonci e trasportati con dei carretti. I bigonci venivano “buttati” nella vasca e i grappoli, piegati con i piedi, provocavano la fuoriuscita del liquido che scendeva tramite una grata nel pilone. Iniziava poi la fase di trasporto e pigiatura e si procedeva alla vinificazione dove il liquido della spremitura dell’acino veniva immesso in botti pulite e tappate in modo da favorire una certa evaporazione fino alla spillazione di controllo per misurare lo stato di vinificazione. In ambito sociale il vino ha sempre rappresentato un’occasione di convivialità, specialmente nei banchetti matrimoniali. L’estratto, contenuto in Tradizioni Popolari Abruzzesi di Antonio De Nino, racconta efficacemente l’importante ruolo del vino …

[…] Il chiasso è sempre superato dal suono dei bicchieri; e i convitati sembrano tanti giocatori di bussolotti. Meno di tutti beve la sposa. Anche lo sposo vorrebbe imitarla; ma non ci riesce, bersagliato com’è, in tutte le direzioni, dai parenti e dagli amici. Si rompe poi ogni misura, quando cominciano i brindisi tradizionali. […]

Non meno importanti erano le credenze contadine che soprattutto ad Aprile invocavano la pioggia affinché nutrisse campagne e vigne per assicurare il riempimento dei barili nella vendemmia autunnale. Da qui il famoso proverbio: Aprile, tre gocce nu barile!

Le tradizioni culinarie della provincia aquilana
Durante la ricerca, incentrata soprattutto sulle sagre enogastronomiche, sono emerse sin da subito differenze e similitudini nelle tradizioni culinarie delle varie zone della provincia aquilana. Ricordiamo che nell’antichità, complice anche il clima, l’Abruzzo si prestava a lavori prettamente agricoli dove la terra era la principale se non l’unica fonte di sostentamento. La coltivazione del grano, ad esempio, rappresentava un rito sacro che iniziava con l’aratura per preparare il terreno alla semina che avveniva tra ottobre e novembre. A luglio si procedeva con la mietitura che consisteva nel tagliare gli steli del frumento e disporli in piccoli fasce, dette vranghe, per creare i covoni destinati alla trebbiatura e trasportati con i caje posti sulle groppe di cavalli o asini.
Si procedeva poi alla pulitura del grano con lo svecciatoio mentre la massaia procedeva al setaccio cioè alla separazione della farina dalla crusca. Francesco Pace nel libro Un cuore abruzzese descrive il processo di mietitura:

[…] Nei tempi passati si cominciava la mietitura già all’alba quando le spighe erano umide di rugiada. Gli uomini partivano verso altre località dove il grano maturava prima che da noi. Tornavano a Pratola per mietere i propri campi e poi partivano di nuovo per dove il grano maturava più tardi. Durante la mietitura tutti contribuivano. Al termine della mietitura sul campo veniva piantata una canna lunga ad indicare proprio che la mietitura era terminata. Bisognava preparare il posto sull’aia dove i covoni di grano venivano portati per essere “battuti” con speciali pali per separare il grano dalla spiga. Per separare i chicchi dalla pula si ricorreva alla ventilazione. Il grano, allora, veniva messo nei sacchi. Le donne trasportavano i sacchi ponendoli sulla testa fino a casa. Qualche contadino più fortunato aveva il carretto […]

Tuttavia la fase più difficile era quella della sgranatura:

[…] Si iniziava a preparare il fondo del canestro che doveva essere abbastanza robusto per sopportare il peso di ciò che vi si poneva, soprattutto del granoturco. Una volta piene di granoturco, le ceste venivano trasportate a casa. Il nonno, con una specie di punteruolo che egli stesso aveva costruito, sgranava gli acini per due o tre file per facilitare le sgranatura a mano riservata alle donne ed ai ragazzi. La sgranatura avveniva spesso lungo le vie del paese e si protraeva anche dopo il tramonto. Quasi sempre il lavoro veniva accompagnato da cori improvvisati ai quali partecipavano tutti, così il lavoro non appariva pesante e non si avvertiva la fatica[…]

A Pratola Peligna era presente il mulino più grande del comprensorio18 con tre macine: due per il grano e uno per il granoturco, al contrario di altri impianti che ne avevano solo due. Oggi è stato riqualificato come museo della civiltà contadina.
De Nino racconta l’usanza dei granati che venivano distribuiti in vari periodi dell’anno:

[…] Viene ora il rito generale del grano e del granone lesso con legumi anche lessi. La miscela si chiama granati, nella Valle Peligna e si distribuisce ai poveri, e talvolta agli amici, nel I° di maggio, ai 2 di novembre e in San Silvestro. Nel I° maggio a Sulmona, si mandano in dono, dentro i piatti, gli stessi granati, con prezzemolo tagliuzzato e confetture minute sparse sulla superficie.[…]

Nella Valle Peligna e dintorni tra i prodotti più famosi abbiamo l’aglio rosso di Sulmona, il maiale nero di Vittorito, la pecora alla cutture di Pacentro, la polenta di Pettorano, i surgitielle con broccoletti di Villalago e il carciofo di Prezza. Tra i dolci è importante citare il pan dell’orso e i mostaccioli di Scanno, i caucenètte di Pacentro, i confetti e la cassata di Sulmona. Nell’Alto Sangro i piatti sono legati alla pecora e al maiale come il sanguinaccio di Roccacinquemiglia e la già citata pecora alla cottura di Rocca Pia. Nella Valle dell’Aterno le ciliegie di Raiano, il torrone dell’Aquila, il cinghiale di Cagnano Amiterno. Nella Valle Subequana il marro di Castelvecchio subequo, i ceci di Goriano Sicoli, le ranocchie di Molina Aterno, il tartufo di Acciano e lo zafferano di Navelli.
Tra i prodotti citati, il più famoso è sicuramente il confetto di Sulmona. Immancabile l’analisi dettagliata di De Nino che spiega con precisione i motivi del successo di questo prodotto:

[..] I confetti che si fanno a Sulmona sono stati sempre proverbiali. Si compongono interamente ed esclusivamente di zucchero. Benché di tutto zucchero, i confetti nostri sono di una durezza e d’una bianchezza estrema. Chi vuol provare se le confetture che si dicono sulmonesi, sono veramente tali, metta un po’ d’acqua nel bicchiere e v’immerga un confetto. Dopo qualche tempo, se il confetto è di puro zucchero, in fondo al bicchiere non vi sarà deposito: se no, la posa sarà indizio che c’era l’amido. I confetti più comuni sono i cannellini, chiamati così da una scheggietta di cannella che v’è dentro e anche dalla forma di un cannello. Un’altra specie comunissima sono le mandorle che si fabbricano appunto con dentro un noccio secco di mandorla. Le mandorle confettate si fanno o lisce o ricce. Dentro ai fragolini c’è un seme di una piccola pianta che una volta si trovava nella Majella; ma ora si trova anche fra le macerie delle nostre colline e specie in Introdacqua. […]

Il vino in Valle Peligna

La viticoltura in Valle Peligna ha una storia secolare e si sviluppa soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Definita da comprovati documenti la “patria del Montepulciano d’Abruzzo”, diverse fonti affermano che sia nato nei pressi di Torre de Passeri e Tocco da Casauria, altre invece ritengono che si sia iniziato a lavorare originariamente in Valle Peligna. Sebbene siano solamente ipotesi, la notizia certa è che il vitigno veniva coltivato dai Peligni durante il XIX secolo. Franco Cercone, basandosi sugli studi di Panfilo Serafini, precisa che intorno al 1830 si potevano distinguere le viti di montepulciano condisco, primaticcio e tardivo. Dopo la seconda guerra mondiale, la viticoltura abruzzese si insediò soprattutto nella fascia collinare sub-costiera.

L’intero scritto di Ilaria Di Gregorio, Paolo Liberatore e Enrico Pignatelli è visibile qui

 

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Classe 1956, perito elettronico industriale, ho conseguito attestati riconosciuti per attività su reti cablate LAN presso la IBM Italia. Ho svolto la mia attività lavorativa c/o Roma Capitale sino al 2020. Autore, nel 2014, del sito Abruzzo Vivo.

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