I Serpari di Cocullo

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La festa dei Serpari di Cocullo si svolge ogni primo giovedì di maggio. Per chi ama spettacoli dal sapore forte e primitivo è doveroso recarsi a Cocullo il primo giovedì di maggio. Vi troverà certamente ciò che cercava; e l’impressione di quanto avrà visto e provato quel giorno non lo abbandonerà per tutto il resto della sua vita. Nessuno è potuto restare insensibile di fronte ad una manifestazione religioso-folcloristica di così rara emotività.

Il rito delle serpi portate in processione insieme alla statua del Santo ha origini e agganci antichissimi. Con ogni probabilità, esso risale al tempo in cui Cocullo era sede del culto di Angizia, la dea che insegnava l’arte dei contravveleni ai primitivi popoli Marsi, che le offrivano in omaggio il sanguinoso sacrificio delle serpi. Secondo Plinio il Vecchio, che per primo descrisse la allucinante cerimonia pagana, le antiche popolazioni della Marsica avrebbero appreso l’arte di incantare i serpenti da Marso (da cui derivò il nome della terra in cui si erano insediate), figlio della mitica maga d’Eea, Circe. Altri attribuirebbero a Umbrone, sacerdote di Angizia e guerriero, il merito di aver edotto quelle genti alla magica attività di rendere innocui i serpenti velenosi.

Ma d’altra parte v’è chi ci assicura che un benedettino ciociaro di nome Domenico (divenuto poi San Domenico di Cocullo, che « è di fatto san Domenico di Foligno e di Sora; quel santo famoso che si die ad erigere monasteri, nei quali giammai non ristava », come attesta il compianto amico Luigi Bologna in « Saggi di itinerari turistici per l’Abruzzo e Molise » – Roma, 1924), essendo di passaggio, intorno all’anno Mille (egli visse tra il 951 e il 1031), durante uno dei suoi frequenti viaggi fra le terre d’Abruzzo e di Montecassino, salvò i contadini di Cocullo da una paurosa invasione di vipere.

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 Fu così che l’antico rito pagano si innestò alla tradizione cristiana. Per l’organizzazione della festa, a Cocullo è stata istituita la cosìddetta « colletta di San Domenico », cui i cittadini cocullesi, presenti e assenti, hanno assicurato la loro plebiscitaria adesione. Gli emigrati in particolare, sparsi un po’ dappertutto, ad ogni ritorno della primavera si affrettano a spedire al parroco dollari e sterline, franchi e marchi, corone e pesos, ed altre valute straniere. Magari sono costretti, poi, a fare qualche ora in più di lavoro in fabbrica, ma il loro generoso contributo alla festa di San Domenico non deve assolutamente mancare. La caccia alle serpi incomincia per tempo. A mano a mano che i tepori primaverili sciolgono le nevi invernali, i « serpari » intensificano le loro battute lungo le pendici delle montagne e tra le pietraie che circondano il paese.

Essi, uomini e donne di ogni età e condizione sociale, armati soltanto di un bastoncello biforcuto, catturano con esperienza antica tutte le specie di rettili (ad eccezione delle sole lucertole), stanandoli pazientemente da sotto i cumuli di sassi o da sotto la terra umida e fredda. E così, l’uno dopo l’altro, colubri e bisce, ela fii e cervoni, ancora mezzo insonnoliti, finiscono nei capaci canestri dei serpari. Anche le velenose vipere seguono il destino dei loro innocui compagni. Per esse, è chiaro, varia il metodo della cattura. Una volta riconosciutele, i serpari le provocano con un vecchio cappello di feltro e, non appena gli aspidi, irritati o spaventati da quell’ombra scura che si agita continuamente davanti al loro muso, ne addentano la tesa, con un brusco strappo i cacciatori di serpi li privano dei loro denti cavi, portatori del tossico, rendendoli innocui per qualche tempo.

In attesa del giorno della festa, le serpi vengono conservate nella crusca di farina, nel cui calduccio se ne stanno quiete quiete. Anzi, non è affatto improbabile che, trovando il nuovo ambiente più accogliente della loro stessa tana, riprendano bellamente il sonno così bruscamente interrotto. Ecco cosa scrive al riguardo il Bologna nella sua citata guida turistica: « Le serpi, raccolte alla fine d’aprile e private di denti, vengono serbate in pentole di creta con crusca e cacciate fuori nei giorni della festa del Santo… Alcune serpi sono allevate col latte e divengono bianchicce ». Per « impentolare » le serpi, i serpari, forato il coperchio, inseriscono la prima serpe di testa, mentre tutte le altre seguono di coda, ad evitare che la bestiola che è nell’interno possa mordere le compagne che vengono dopo. La delicata operazione avviene in chiesa, presso la statua di San Domenico.

Durante la vigilia d’attesa, si può giurarlo, a Cocullo non c’è famiglia che non ospiti almeno quattro o cin- que serpi, pronte per essere offerte nel giorno della festa al Santo Patrono. La mattina del giorno di San Domenico, i serpari si danno convegno sul sagrato della chiesa parrocchiale, dedicata al Taumaturgo. Ognuno reca le proprie serpi nella mano chiusa, con le testoline in giù, secondo una maniera consueta tra i serpari di quelle parti, per poi deporle sul simulacro del Santo all’uscita dalla chiesa, o per portarle in processione per le tortuose viuzze di Cocullo. All’apparizione della statua, recante nella destra il pastorale e nella sinistra il ferro della mula, essi depongono i rettili più vispi sulle spalle, sul collo e sulle braccia di San Domenico. Appena si accorgono di essere libere, le serpi cominciano a strisciare pigramente nelle diverse direzioni, alla ricerca di un appiglio sicuro.

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In breve, l’immagine del Santo appare quasi sommersa sotto i viscidi corpi squamosi e variamente colorati, scomparendo alla vista dei fedeli e dei numerosi turisti accorsi da ogni parte d’Italia e del mondo. Cosi, succintamente, il Bologna (op. cit.) sulla processione di San Domenico: « Ma si sente un vocìo confuso. Ecco la processione: passano le statue dei Santi, recati a spalla da uomini, da donne, perfino da bambini. Infine la statua di San Domenico: le serpi sono cosparse dappertutto… La statua di San Domenico gira per le vie del paese, tra l’attonito sguardo dei pellegrini, cinta di serpi, che si attoreigliano e si arrovellano tra le pieghe della statua stessa… Moltissimi nella processione recano grovigli di serpi; poi vengono i cani da pastori, bianchi, senza museruola; che il dì della festa del Taumaturgo serpi e cani non mordono. Cosi vuole la fantasia popolare ». I cani, prima della processione, « sono stati fatti passare sotto un albero, all’ingresso del paese, per vedere se hanno ‘mosse sospette’, leggi, ‘idrofobi’. In caso affermativo, vengono sacrificati; in caso negativo sono condotti in processione » (Bologna, op. cit.).

A proposito dei cani e del rito esoreistico della rabbia, ecco un suggestivo quadretto dell’inglese W. H. Woodward, riportato nel suo articolo « The Festival of San Domenico », pubblicato su « The Manchester Guardian » del 1 giugno 1909: »… una mezza ora prima dello inizio della Santa Messa, scoprii un curioso gruppo. Quattro uomini stavano inginocchiati sul pavimento di marmo e ciascuno di essi teneva tre cani al guinzaglio… Vi erano inoltre tre giovani donne, alcuni bambini ed una madre con la sua prole, uno splendido ragazzo che, secondo me, doveva avere intorno ai diciotto anni. Egli aveva capelli di un colore rosso-arancio, una faccia lentigginosa e occhi azzurro chiari. I suoi calzoni corti e la mantella slegata erano di pelle di pecora dal pelo lungo scuro; ai suoi piedi, sandali di cuoio allacciati in un punto dal quale partiva una cinghia tirata indietro fino alla caviglia. Suo padre era con lui ed aveva al guinzaglio tre cani. Uno era un enorme ‘canelupo’ bianco, il canelupo degli Abruzzi, ma per corporatura e pelo somigliante piuttosto ad un niveo Terranova… entra un giovane prete e si inginocchia all’altare della cappella.

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Si gira e fa dei segni al ragazzo… Vi è un tintinnio di catene e collari… A fatica il ragazzo e suo padre guidano i cani verso la balaustra di marmo e si inginocchiano. Il prete piende dall’altare qualcosa che assomiglia ad una piccola sbarra di ferro sormontata da un oggetto ricurvo. Si tratta della reliquia di San Domenico – un ferro di cavallo del mulo sul dorso del quale, in un giorno memorabile, egli venne per la primi volta a Cocullo. I pazienti cani alzano le teste e poggiano il muso sulla balaustra l’uno accanto all’altro. Su di essi, a turno, il prete poggia con devozione la venerata reliquia del santo.

Altri due gruppi prendono posto sui gradini… ‘No, signore’ mi disse uno dei pastori mentre uscivamo dalla chiesa ‘adesso i miei cani non avranno mai la rabbia Ne un lupo oserà sbranarli, signore. Sì, si! Questo cane’ accarezzando il suo canelupo, che ringhiò sospettosamente, ‘questo cane ha ucciso diversi lupi sulFArgatone e il Terrata‘ ». Può capitare che durante la processione, a dispetto degli sforzi compiuti per conservare il suo pur precario equilibrio, soprattutto a causa dei continui sobbalzi deiici stama, qualche rettile stramazzi pesantemente sul duro selciato del percorso cittadino; allora subito il serparo si precipita a raccoglierlo e lo rigetta sul simulacro del Santo.

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Le altre serpi, quelle più sonnacchiose, seguono oppure precedono l’effige di San Domenico, costrette nelle positure più diverse, a seconda dell’estro dei portatori: talune avvolte al collo a guisa di orripilanti cravatte, altre attorcigliate ai polsi in forma di assurdi braccialecti a salsicciotto. E non è raro scorgere qualche bestiola andare in processione rannicchiata tra le circonvoluzioni dei tromboni della banda musicale! Ma i poveri animaletti sono completamente istupiditi da tutto quel frastuono assordante di mortaretti, di squilli di trombe e di colpi di piatti e di grancassa, e dal continuo vociare della folla che fa ressa nelle vie e nella piazza: essi non osano neppure muoversi, ne tentano (come sarebbe loro intenzione) di filarsela alla chetichella, approfittando della generale confusione, verso la montagna non lontana. Semprechè, naturalmente, la festa non capiti in un primo giovedì di maggio piuttosto freddarello, data la cospicua altitudine di Cocullo, perché in tal caso la fuga sarebbe proprio impossibile…

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Però la credenza popolare attribuisce alla taumaturgica influenza di San Domenico se nel giorno della sua festa le serpi sono così mansuete… ” Intanto » ci riferisce ancora il Bologna ” una fiera di monili, amuleti e oggetti vari si svolge sulla piazza del paese: si vendono ferri da cavallo a punta, atti a fare asole e fori nelle stoffe (un tempo vi si facevano tatuaggi a fuoco a preservare dai morsi velenosi); lacci colorati che si pongono al braccio o al cappello. Nella chiesa, intanto, le statue sono circondate da devoti che pregano ginocchioni, una campana suona in permanenza, con timbro variabile. Sono i fedeli. Chi tira la cordicella con i denti e fa tintinnare la campana è preservato dal male di denti.

Santa ingenuità! L’igiene ne soffre, però, che la corda si sente, nella giornata, stringere da migliala di denti e viene umettata da centinaia di bocche! ». Ma ora questo non accade più, per- ché i devoti, più informati circa le norme igieniche, addentano la corda dopo averla ricoperta col proprio fazzoletto. Ancora non molto tempo addietro, al rientro della processione in chiesa, i serpari erano soliti uccidere le serpi sul sagrato, secondo l’uso pagano. Oggi si preferisce evitare l’orrenda carneficina che un tempo veniva consumata sotto il simulacro di Angizia, evidentemente in omaggio ad un più avvertito senso di civiltà e di rispetto nei confronti degli animali. I rettili delle specie più belle e più ricercate vengono venduti ai collezionisti, mentre le vipere vengono cedute alle industrie farmaceutiche per la preparazione del siero antiofidico.

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Però la gran parte delle serpi viene restituita alla montagna, al loro ambiente naturale. E così può accadere che nella primavera seguente esse vengano catturate di nuovo dai serpari e riofferte in simbolico omaggio sacrificale a San Domenico, secondo il rituale che conosciamo. « A processione finita » ci conferma il Bologna nel suo libro di vagabondaggi abruzzesi e molisani, « i serpari portano le bestiole presso il ‘Ponte’. Quivi l’arciprete o il ‘procuratore‘ le pagano tanto cadauna. Ed a conclusione i serpari danno la libertà alle serpi nella terra di ‘Marano’ o le uccidono, facendo una nuova strage d’innocenti! ».

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A ciò fa seguire questa sua personale considerazione sulla festa di San Domenico: “La terra di Cocullo merita di essere visitata; perché le descrizioni non possono mai dare la rappresentazione vera e palpitante di quello che avviene: e la festa delle serpi deve essere vista, perché se ne possa afferrare la caratteristica e se ne possa comprendere l’orrida bellezza!“. La processione dei serpari di Cocullo ispirò un famoso quadro a F.P. Michetta che vi intervenne nel 1880 come occasionale portatore di serpi insieme all’amico Antonio De Nino, noto folclorista e archeologo peligno. Il De Nino stesso riportò il fatto nei suoi « Usi e costumi abruzzesi ». Siccome a quel tempo venivano uccise, il pittore, per salvare alcune bestiole, comprò un canestro di serpi e se lo riportò nel suo convento di Francavilla a Mare, dove con tutta probabilità quelle serpi gli abbiano fatto da « modelle » per la sua celebre tempera.

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Anche D’Annunzio, che coltivò con intensa passione le tradizioni del suo Abruzzo in alcune opere giovanili di letteratura e di teatro, fu attratto dal fascinoso richiamo della sagra di Cocullo, riportandone vivissima impressione. Solitario, rincantucciato in un pietroso anfratto dell’estrema propaggine meridionale della Marsica, sta Cocullo, « un paese che per andarci » scrive quasi celiando Federico Nardelli in « Sopravvivenze », « basta un aeroplano ». (Un elicottero, diremmo noi, un po’ più contemporanei dello scrittore avezzanese). Ma ora non ce n’è davvero più bisogno, perché a Cocullo si va in autostrada (A-25 – Roma-Pescara). Scrivendo di pellegrinaggi nella terra d’Abruzzo in « La vergine Anna », da Novelle della Pescara, (« Stuoli di pellegrini volgevano per altre vie, cantando …Anna li ascoltava; e un desiderio senza fine la traeva a raggiungerli, a seguirli, a vivere così pellegrinando di santuario in santuario, di contrada in contrada per esaltare i miracoli d’ogni Santo, le virtù d’ogni reliquia, la bontà d’ogni Maria »), così D’Annunzio adombra il paese di Cocullo e le virtù taumaturgiche del suo Patrono: « Vanno a Cocullo » disse Fra Mansueto, accennando col braccio ad un paese lontano.

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E ambedue si misero a parlare di San Domenico che protegge dal morso dei serpenti gli uomini, e le semenze dai bruchi… ». Cocullo (il romano « Coculum oppidum ») è un modesto centro agricolo-pastorale, situato a 865 metri di altitudine su uno sperone del monte Lupare, a sinistra del torrente Pezzana, a cavallo tra la Marsica e la valle del Sagittario. Oggi, il paese non è più isolato dal resto del mondo, come Nardelli fa sospettare nelle sue « Sopravvivenze ». Non da poco tempo, oltre che per via ferroviaria, Cocullo è raggiungibile, come abbiamo accennato, attraverso la A-25, la nazionale n. 5 – Tiburtina Valeria – e la provinciale da Anversa degli Abruzzi. Fin dall’antichità, il luogo è famoso per il santuario di San Domenico e per i suoi serpari. « Ma quello che v’è da ammirare in questo paese alpestre » ci soccorre ancora Luigi Bologna con le sue citate memorie turistiche « è la ridda delle serpi alla festa di San Domenico.

Il Santuario del Taumaturgo è affollato, specie dall’agosto al settembre. Fedeli e gente infelice vengono a plorare ed impetrare grazie al Santo, che protegge dai morsi velenosi delle serpi e dall’idrofobia ». Un paese, ancora ai nostri tempi, povero. Molti dei suoi abitanti sono espatriati in massa in terre lontane, a lavorare duro per sopravvivere.

Credits: Autore Andrea Pilotti

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Classe 1956, perito elettronico industriale, ho conseguito attestati riconosciuti per attività su reti cablate LAN presso la IBM Italia. Ho svolto la mia attività lavorativa c/o Roma Capitale sino al 2020. Autore, nel 2014, del sito Abruzzo Vivo.

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