Le miniere di bauxite a Lecce nei Marsi

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La storia

Anche nell’Italia del Sud, all’inizio dell’800, sia sulla spinta della Rivoluzione Industriale avviata dai Paesi del nord Europa, sia per il vento di rinnovamento portato dai murattiani in tutti i campi della società civile, si cominciò a pensare che il crescente fabbisogno di legna per ottenere una idonea quantità di energia necessaria ad alimentare la nascente industria civile e militare, avrebbe vieppiù impoverito il patrimonio forestale. Fu così che lo stesso governo murattiano, seguito poi dal restaurato governo napoletano, iniziarono una campagna di incoraggiamento alla ricerca di minerali di cui alcune regioni del Regno parevano essere ricche. Fu così che anche in Abruzzo il “piccolo Eldorado” spinse una gran quantità di persone a cercare minerali di tutti i tipi, su tutti i terreni, fossero essi privati che demaniali: la nuova Legge mineraria infatti, emessa nel 1826, facilitava ulteriormente le ricerche di privati su tutti i terreni possibili, purchè dessero frutti entro un paio d’anni. Tra le varie scoperte di minerali nella provincia dell’Aquila, quali petrolio, lignite e bitume, ve ne fu una, nella Marsica orientale, che avrebbe avuto un seguito avventuroso ed insospettabile.

 

 

Nel 1813 tali Giacinto Ciccotti e Domenico Iatosti di Avezzano inviarono al Ministro dell’Interno del Regno delle missive nelle quali indicavano ritrovamenti di minerali ferrosi nel territorio montano nei dintorni di Avezzano, ed in particolare a Lecce nei Marsi (in località Collerosso, a quota 1420), in quantità tale che secondo loro si sarebbe potuto aprire una ferriera nella zona, al fine di trasformare il minerale in metallo direttamente sul posto. Il minerale ritrovato conteneva circa il 30% di ferro e venne scambiato erroneamente per limonite, a causa del suo colore giallo-rossastro, poiché all’epoca ancora non era nota l’importanza di quella roccia rossastra, che alcuni anni dopo sarebbe stata denominata “bauxite”, in onore di Baux en Provence, cittadina del sud della Francia dove era stato ritrovato in grandi quantità. Ciò che all’epoca del ritrovamento, e per molti anni a venire, rimaneva ignoto, di quel minerale, era di cosa era costituito il restante 70% della sua massa, che fu sbrigativamente etichettata come “scoria”. Fu così che, nel 1843, a S.Sebastiano dei Marsi (a circa 4 km in linea d’aria da Collerosso) fu impiantata una ferriera con altoforno per trasformare in ferro il minerale proveniente da Collerosso trasportato dai muli lungo un sentiero di circa 10 km che attraversava un paio di valichi prima di giungere alla Ferriera. Oggi è possibile percorrere questo sentiero, che in gran parte si svolge sul territorio del Parco Nazionale d’Abruzzo, e lungo il quale è possibile incontrare a terra qualche piccolo masso di bauxite caduta dai basti dei muli.

 

 

La Ferriera, creata e condotta dai francesi Charles Aune, Tommaso D’Ajout e Abel Richardot, produsse ferro in condizioni piuttosto precarie, a causa delle difficoltà obiettive create sia dalla carenza di servizi, di strade, di collaborazione con la popolazione locale, di forzate soste per almeno sei mesi l’anno a causa del clima (l’impianto era situato a quota  1.100), ma soprattutto perché il minerale utilizzato conteneva, come detto, una scarsa quantità di ferro, e perdipiù lo stesso ferro che veniva prodotto non era di grande qualità, poiché prodotto con un altoforno poco efficiente a causa della bassa temperatura prodotta dalla combustione della legna. In definitiva la produzione di ferro si limitò a poco più degli utensili venduti in zona, per cui dopo pochi decenni la Ferriera venne chiusa, e con essa sembrò dover chiudere per sempre anche la miniera di Collerosso.

Intanto, in Francia, le ricerche sul nostro minerale, colà denominato, come detto, “bauxite”, avevano lentamente portato ad una scoperta sensazionale, che avrebbe cambiato nel secolo successivo lo sviluppo dell’industria mineraria e metallurgica. A parte il 30% circa di minerale di ferro, la bauxite infatti contiene dal 50 al 60% di allumina (sostanza già conosciuta fin dall’inizio del secolo poiché contenuta nella “criolite”, ma poco interessante poiché pressochè inutilizzabile in quella forma). L’allumina infatti non era estraibile dalla bauxite con il metodo della fusione (infatti dall’altoforno di S.Sebastiano ne usciva solo come scoria), bensì con un metodo elettrochimico, che venne introdotto verso la fine dell’800. Fu così che agli inizi del ‘900 la miniera di Collerosso riprese vita: acquisita la concessione nel 1903 da parte della Società Italiana per la Fabbricazione dell’Alluminio (S.I.F.A.), e costruita una teleferica (circa 5 km) che trasportasse a il minerale estratto da Collerosso a valle fino a Lecce nei Marsi (1905) attraverso il Vallone di Lecce Vecchio, iniziò il ciclo di produzione (per la prima volta in Italia) di una industria italiana che trasformasse un minerale estratto da una miniera italiana in un metallo (alluminio) italiano. Infatti il minerale, una volta arrivato a Lecce nei Marsi, veniva caricato su dei carri (che ben presto divennero autocarri), i quali volgevano verso Pescina, da dove, in treno, proseguivano per Bussi, presso la fabbrica della S.I.F.A., dalla quale veniva sfornato alluminio in quantità sempre crescente.

 

 

L’alluminio era di ottima qualità e soprattutto il suo prezzo era molto concorrenziale, poiché prodotto, come diremmo oggi, a chilometri zero, tanto è vero che ben presto, dopo la guerra del ‘15-18 (periodo d’oro poiché il ciclo di produzione venne incorporato dallo Stato per fini bellici), iniziò una spietata guerra economica da parte dei mercati stranieri, in quanto il basso prezzo dell’alluminio abruzzese infastidiva i produttori esteri. Nel frattempo l’impianto di Bussi e la miniera di Collerosso era stata acquisita dalla Montecatini ed il suo presidente (lo spregiudicato Donegani in seguito gerarca) prestò il fianco (involontariamente?) al cartello europeo dell’alluminio, trasportando entro il 1930 tutto il ciclo di produzione a Porto Marghera, trasformando la fabbrica dell’alluminio di Bussi nella Società Italiana di Elettrochimica (che poi divenne, come purtroppo sappiamo oggi, la Fabbrica dei Veleni).

 

 

Nel 1930 la miniera di Collerosso chiude

Circa cento capifamiglia di Lecce nei Marsi perdono il lavoro, e a nulla serve una supplica a Sua Eccellenza il Duce, firmata da oltre mille persone, affinchè la stessa venga riaperta.

La miniera riapre negli anni ’50, dopo la seconda guerra, ma non è più quella di prima. Le cose nel mondo sono cambiate, la fabbrica di Bussi non c’è più, l’alluminio viene prodotto lontano e il suo costo è elevato: non conviene più produrre in una area ormai divenuta depressa. Chiude di nuovo negli anni ’60, e sarà per sempre.

Oggi abbiamo la possibilità di farla rivivere, ma non con un vero ciclo di produzione, bensì con iniziative di carattere storico (si tratta di una storia affascinante, che dura quasi due secoli), di carattere culturale, di carattere ambientalistico (siamo nel Parco più ammirato e frequentato in Italia), di carattere turistico: il Sentiero della Bauxite, che nell’ottocento era quella che oggi si chiamerebbe una Alta Via, è infatti uno degli anelli di congiunzione della più vasta e importante Via dei Marsi.

di Roberto Mastrostefano

 

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Classe 1956, perito elettronico industriale, ho conseguito attestati riconosciuti per attività su reti cablate LAN presso la IBM Italia. Ho svolto la mia attività lavorativa c/o Roma Capitale sino al 2020. Autore, nel 2014, del sito Abruzzo Vivo.

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