Le tradizioni di maggio in Abruzzo

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L’Abruzzo conserva una lunga consuetudine di usanze e feste legate soprattutto alla vegetazione e alla pastorizia. È una terra segnata dai tratturi e dalla transumanza, elementi, questi, che hanno determinato il carattere delle genti abruzzesi e i loro costumi, difficilmente reperibili fuori dalla regione, ad eccezione di alcune aree del Molise con il quale l’Abruzzo mantiene un buon rapporto di condivisione di usi. Fin da tempi remoti, la vegetazione è sempre stata, nell’immaginario collettivo, il simbolo di carattere ciclico di ogni esistenza, rappresentata dalla nascita, dalla maturazione, dalla morte e dalla trasformazione di ogni organismo vivente. Tutte le feste e le ricorrenze di origini remote si possono dunque ricondurre alla natura poiché celebrano, sebbene con modalità diverse secondo le varie culture, le forze cosmiche che si manifestano nei cicli annuali e che comunemente culminano nel solstizio d’estate quando, in autunno, la natura inizia la sua fase di decadenza. Anticamente la fioritura e la maturazione dei frutti, ed anche il risveglio degli animali, venivano accolti con gioia dai contadini e dai pastori che per secoli continuarono a s-omerofesteggiare il mese di maggio con canti, balli e cibo fresco di stagione. Coloro che abbandonavano le campagne e i pascoli portavano in città usanze e tradizioni, e fu così che a Roma furono “importate” le floralia, festività primaverili italiche che però nel centro dell’impero furono arricchite da aspetti trasgressivi a sfondo sessuale, piuttosto licenziosi e dissoluti: tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio avevano luogo a Roma delle rappresentazioni teatrali e giochi mimici che costituivano la parte principale del divertimento collettivo. Veniva dunque chiesto alle attrici di spogliarsi sulla scena, mentre la folla acclamava al solo vederle muoversi e danzare. L’ultimo giorno delle floralia lo si trascorreva al Circo Massimo dove si dava la caccia ad animali domestici come capre e lepri; al termine dei festeggiamenti dei semi venivano sparsi in segno propiziatorio. Feste dello stesso tipo, principalmente in primavera e in autunno, si svolgevano in periodi di allegria e spensieratezza suggeriti dalla stagione dell’anno, senza una chiara connessione con qualche divinità particolare. Tali feste erano accompagnate da scherzi e grandi bevute. Nel mese di maggio – e più propriamente il primo del mese (calendimaggio) – si celebrava il risveglio della natura, fondato su antichissimi culti agrari e riti magici attuati per propiziare la fecondità dei campi, degli animali e degli uomini. Con la perdita del loro significato magico e pagano, nei secoli molti riti contadini sono stati trasformati in festività religiose legate al santo patrono o, più tristemente, sono stati “declassati” a mere feste folcloristiche o “rivisitazioni”, con lo scopo di attirare turisti in cerca di sagre a scopo “godereccio”.

L’usanza del “piantar maggio” è ormai in disuso ma alcuni luoghi abruzzesi ne conservano chiaramente i caratteri rituali, come accade a Tornimparte (AQ): qui la sera del 30 aprile gli uomini del paese, con forte prevalenza di giovani, si riuniscono per concordare le procedure e le modalità del rito che dovranno portare a compimento prima dell’alba. Scelto l’albero dal fusto più alto e slanciato, si recano ad abbatterlo tornimpartecon la circospezione e la prudenza che il caso richiede, questo perché, sebbene la tradizione stabilisca che si scelga un albero della proprietà comunale, qualora se ne ravvisi la necessità si può anche abbattere un albero di proprietà privata. In questo caso la consuetudine prescrive che i tagliatori possano essere accusati di danneggiamento e di furto solo nel caso in cui il proprietario li sorprenda entro il perimetro del proprio fondo agricolo o li raggiunga in piazza, prima che i tagliatori suonino le campane. Tagliato l’albero, gli uomini provvedono al trasporto a spalla del fusto fino alla piazza principale del paese, dove, sempre con il concorso di tutti, badando a non far molto rumore e a concludere il rito prima dello spuntare del giorno, viene issato accanto al campanile. A questo punto la comitiva provvede a suonare le campane a festa e a risvegliare tutto il paese, che accorre in piazza ed esprime commenti e giudizi sul ju calenne, congratulandosi per la buona riuscita dell’evento. L’albero resterà piantato vicino al campanile fino al 30 maggio, quando sarà nuovamente abbattuto per essere tagliato a pezzi e venduto all’asta per contribuire alle spese per la festa di Sant’Antonio del Giglio. Del rito si hanno già notizie negli statuti quattrocenteschi della città di L’Aquila, in cui si fa espresso divieto di alzare calenne, facendo riferimento alla norma che imponeva il rispetto del diritto di proprietà. L’uso appena descritto sembra che risalga al periodo longobardo, di cui il territorio di Tornimparte mantiene ancora alcune tracce a livello di toponomastica (Fara). Nella cultura longobarda l’albero era un costante punto di riferimento, tanto che i placita, ossia le assemblee degli uomini liberi, avvenivano intorno ad un albero il cui spazio, determinato dall’ombra della chioma, era considerato sacro. In epoca romana maggio era il mese in cui si affermava ritualmente l’autorità divina (maiestas), in particolare quella di Giove, detto Maius, e umana, ossia degli anziani (maiores), ma tutto il mese era dedicato alle feste di rinnovamento e di purificazione dei campi. Simbolo del risveglio della natura era dunque l’albero in fiore: non è un caso che più avanti si diffuse il canto tradizionale di carattere idillico–amoroso legato alle feste primaverili del calendimaggio. Era il 15° secolo e le allegre brigate di giovani, detti maggiaioli, andavano di casa in casa recando il “maggio”, ossia un ramo fiorito, in omaggio alla sopraggiunta primavera.

E così il nostro viaggio alla ricerca dell’albero di maggio si ferma a Sant’Omero (TE) dove la tradizione vuole che, sempre nella notte fra il 30 aprile e il 1° maggio, un pioppo venga abbattuto nelle vicinanze del paese e trasportato, prima con un camion e poi a spalla, da una ventina di uomini che lo issano in una buca che hanno predisposto in precedenza: il tutto furtivamente e avvolto nel mistero. Dopo aver issato l’albero il gruppo si scambia vicendevolmente gli auguri e festeggia con una complice bicchierata di vino. Prima dell’alba l’allegra comitiva si scioglie ed ognuno fa ritorno nelle proprie case. A dire il vero questa usanza era associata alle “abitudini politiche” delle sezioni locali del partito comunista e del partito socialista i cui iscritti erano soliti piantare, in prossimità della piazza del municipio di Sant’Omero, un pioppo sulle cui chiome venivano issate le bandiere dei due partiti; oggi il simbolo è sostituito da una generica bandiera rossa che indica l’appartenenza alla sinistra. Gli anziani del paese ricordano che durante il fascismo tale serpariusanza fu proibita – o almeno incontrò molti ostacoli nella sua realizzazione – e che, quando poté essere applicata, sull’albero si provvide ad issare la bandiera italiana; altri ricordano che essa fu ripresa sistematicamente dopo il 1948 e che, inizialmente, fu necessario sorvegliare l’albero dopo averlo piantato in piazza, per evitare incidenti e disordini o l’eventualità che fosse manomesso o abbattuto. Questa tradizione non deve però distrarci dal nostro vero scopo, ossia quello di ripercorrere la strada dell’albero di maggio il quale affonda le sue radici nella preistoria. La pratica del piantare fusti di vario tipo risale all’epoca in cui l’uomo, dallo stato nomade o seminomade del cacciatore, diventò stanziale, ossia agricoltore, ed iniziò a stabilire un contatto con la natura, attraverso una serie di pratiche magiche e religiose che avevano il compito di esercitare una funzione propiziatrice nei confronti della vegetazione. L’usanza di Sant’Omero ha tutte le caratteristiche della reviviscenza, cioè di un elemento tradizionale che mantiene il suo significato, grazie al fatto di aver sostituito la sua funzione segnica originaria in una più aderente al contesto storico e sociale di riferimento. La presenza dell’elemento politico sposta di fatto la definizione del rituale dall’ambito rurale originario a quello urbano, ripetendo del resto una procedura non infrequente nelle consuetudini popolari che, quando esplicano una funzione comunitaria, si riferiscono sempre alla struttura sociale presente e da essa assumono i punti di riferimento. Nel caso di Sant’Omero la tradizione ha assunto la funzione di collocare i sentimenti individuali all’interno di un comportamento collettivo ritualizzato che usa un oggetto rappresentativo del gruppo per ridefinire la scultura comunitaria.

L’usanza dell’albero di maggio è rilevabile, almeno sporadicamente o a livello di memoria, anche nei paesi limitrofi come Corropoli, Bellante, Nereto, Controguerra e nella provincia di Ascoli Piceno. Rimanendo nella provincia di Teramo, un cenno particolare merita una tradizione gastronomica del calendimaggio, legata a riti contadini propiziatori e, soprattutto, alla sapienza delle massaie di un tempo, capaci di non sprecare nulla e di utilizzare tutto ciò che la loro dispensa poteva offrir loro. Di certo questa premessa vi ha riportato alla memoria le virtù, quel minestrone leggendario, pietanza rituale antichissima che riunisce in un’unica preparazione generi alimentari diversi. Secondo la ricetta tramandata da madre in figlia dovrebbero essere presenti sette tipi di legumi secchi rimasti dalla provvista invernale, sette specialità di verdure offerte dalla stagione primaverile, sette tipi di legumi freschi, sette condimenti, sette qualità di carne, sette forme di pasta con l’aggiunta di alcuni chicchi di riso. La tradizione vuole che siano proprio sette (numero non casuale!) le ore da dedicare alla cottura delle “virtù”.

Le TRADIZIONI GASTRONOMICHE sono forse le forme che più ci raccontano di un passato così lontano da noi, di un lungo periodo in cui tutta la collettività contribuiva a creare, conservare, tramandare e rinnovare la vita sociale e culturale di un luogo. Il “sapere popolare” delle genti abruzzesi ha costituito nei secoli l’inestimabile patrimonio di valori pratici ed etici che purtroppo si sta perdendo di anno in anno; ciò nonostante alcune feste ricordano, con lo stesso “sapore” di un tempo, fatti ed episodi che hanno segnato la storia di borghi e villaggi, luoghi in cui le comunità si riunivano anche a scopo celebrativo e propiziatoriocerrano-a-04 per eliminare il male accumulato durante l’inverno freddo e scarso di cibo, e non solo … Anche Silvi Paese (TE) ha la sua memoria: qui si tramanda un episodio strettamente collegato alle mirabolanti scorribande dei predoni turchi che si avvicinavano alle coste dell’Adriatico intorno al 16° secolo: alcuni di loro sbarcarono nel porticciolo del Cerrano (l’antico porto di Atri e Silvi) e, dopo aver saccheggiato tutto quello che c’era, si diressero verso l’antico borgo sulla collina. Tutta la popolazione fu chiamata a difendere il borgo, allorché un giovane coraggioso di nome Leone scese dalla collina con una fiaccola in mano per affrontarli. Sarà stato per la corsa del ragazzo o per il vento favorevole, ma quella fiaccola prodigiosamente emanò una luce sempre più intensa, tanto che gli invasori credettero che un intero esercito stesse per attaccarli. Per timore di perdere il bottino già conquistato o soltanto per codardia, si ritirarono. Questo episodio viene ricordato ogni anno, tradizionalmente l’ultima domenica di maggio, con Lu Ciancialone, ossia una grossa e alta colonna di canne legate tra loro che viene portata in piazza all’imbrunire. Il momento più emozionante della festa è costituito dalle fasi che vedono all’opera uomini forzuti impegnati a mettere in piedi questo enorme fascio di canne, per poi salire in cima e appiccargli fuoco fra gli incitamenti e la gioia della folla festante che danza e fa baldoria fino a quando del ciancialone non resta che cenere.

Ma torniamo al maggio fiorito e alle tradizioni diffuse in Abruzzo. In tutto il territorio circostante Schiavi d’Abruzzo, fino ad Atessa e soprattutto tra le comunità slavofone del Molise come Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice era diffusa una usanza legata al rituale balcanico del Verde Giorgio, una festa agraria a forte connotazione magica che tendeva a stimolare il ritorno della bella stagione, personificata in un fanciullo vestito di verde che assumeva la funzione di re della campagna e spesso concludeva la cerimonia immergendosi nelle acque di un fiume. Con questa simbologia la vegetazione – e con essa la prosperità legata al risveglio della natura – è presente anche a San Giovanni Lipioni (CH) dove un gruppo di giovani uomini perpetua la questua rituale del 1° maggio. Il primo della compagnia, che spesso è anche il più giovane, sorregge una lunga pertica sulla cui cima è infissa una intelaiatura di canne a forma di croce greca, circoscritta in un cerchio. La costruzione è completamente ricoperta di mazzolini di fiori di campo, di spighe di grano e di baccelli di fave ed ha un aspetto molto gioioso e primaverile. Dopo essersi recati nella chiesa campestre ed aver fatto benedire il majo, la compagnia gira per le vie del paese e si ferma di casa in casa ripetendo il seguente ritornello: Chi ha detto che maggio non è venuto / Esci fuori e lo trovi vestito / E venga maggio e venga di buon anno … Il canto continua con gli auguri di prosperità per gli abitanti della casa, di future nozze per le ragazze da marito e, infine, con la richiesta della ricompensa che solitamente consiste in un certo numero di uova che uno del gruppo provvede a riporre in cestini. Ottenute le uova, il capo della compagnia consegna agli abitanti della casa un mazzolino di fiori e tutto il gruppo allegramente riprende il cammino. Accanto alle celebrazioni della vegetazione, del risveglio della natura e delle fioriture, nel tempo hanno avuto ampio sviluppo anche le tradizioni dedicate alla fauna, soprattutto a quegli animali per secoli temuti poiché predatori degli animali domestici che tanta parte avevano nella vita familiare dei contadini che abitavano le campagne e dei montanari della Maiella e del Gran Sasso.  Non è un caso che a Cocullo (AQ) il primo giovedì di maggio, si rinnova il rito dei serpari, la cui origine va ricercata nei riti arcaici delle popolazioni della Marsica, ossia nel culto pagano della dea Angizia, ritenuta capace di guarire dai morsi dei serpenti.

cocullo

Nel Medio Evo il culto della dea fu sostituito dai guaritori, detti cerauli, i quali erano in grado di guarire anche dai morsi dei cani rabbiosi. Nel tempo si diffuse la credenza che i cerauli fossero anche incantatori di serpenti entrando in contrasto con la religione ufficiale, pertanto ad essi fu dato un nuovo nome, sandomenicari, a voler sottintendere la forte attinenza con i poteri attribuiti a San Domenico, un benedettino vissuto a cavallo dell’anno Mille. Ed è per questo che ogni anno si ripete lo straordinario spettacolo della processione dei serpari, con a capo la statua del santo ricoperta di rettili e seguita dagli antichi cerauli, anch’essi coperti di serpenti ma immuni al loro morso velenoso.. Anche a Pretoro (CH), la prima domenica di maggio, si celebra una festa in cui sono presenti le serpi, ma qui la figura dei serpari – che come categoria lavorativa sono da tempo scomparsi – viene sostituita dalle persone in grado di catturarle, con lo scopo del tutto simbolico di liberare il territorio dal pericolo che deriverebbe dalla presenza ofidica. Il punto centrale della festa, al di là delle celebrazioni liturgiche della processione dedicata a San Domenico Abate, della devozione popolare che pure mantiene non pochi aspetti di interesse antropologico – come l’uso del laccetto benedetto, altrove perduto, che i devoti portano indosso per preservarsi dal morso degli animali rabbiosi, dalla febbre e a scopo protettivo e devozionale in genere – resta la rappresentazione del lupo che merita una descrizione dettagliata. Subito dopo la processione parte dalle vie del centro storico un corteo rappresentante una famiglia di boscaioli che si avvia al lavoro. Gli attori sono, secondo l’antica drammaturgia, tutti uomini, anche quello che rappresenta una contadina che reca sulla testa una cesta con un neonato, che secondo la consuetudine è l’ultimo nato del paese. È da notare che prima di essere affidato agli attori il bambino è ornato di vistosi fiocchi rossi contro il malocchio, per scongiurare eventuali pericoli ed esorcizzare il timore che deriva anche solo dalla finzione. Anche la coperta che copre la culla è rossa. La “donna” è vestita da pacchiana ed incede con molto sussiego, cercando di sottolineare, fino alla parodia, i caratteri femminili del personaggio. La segue il “marito”, armato di scure e a dorso di un asino, su cui reca, oltre agli altri attrezzi di lavoro, anche una cesta con il cibo per la colazione. Il corteo si chiude con altri attori di contorno e tra questi anche quello che svolgerà la parte del lupo. Seguito da una grande folla, il gruppo si avvia verso una radura, appena fuori dell’abitato, dove da diversi anni, per motivi di sicurezza e di spazio, oltre che per sfruttare la scenografia naturale della zona, si svolge la rappresentazione che prima aveva luogo davanti alla chiesa. Giunti sulla radura, avendo alle spalle la folta vegetazione di un boschetto, gli attori danno inizio alla rappresentazione e mimano una scena familiare di lavoro. La donna, prende ad accudire il bambino, cullandolo, facendogli moine e annuendo alle raccomandazioni del marito che la invita a vigilare attentamente sui pericoli che potrebbero venire dal bosco. La donna promette di stare attenta e il marito si avvia tra gli alberi per la raccolta della legna. Dopo qualche tempo la donna allestisce il desinare sull’erba e richiama il consorte. Si svolge qui la parte comica della rappresentazione in quanto i due contadini mangiano e bevono allegramente e, tra la divertita partecipazione del pubblico, si scambiano esilaranti effusioni di affetto. Subito dopo il pranzo il marito ritorna al lavoro e, mentre il bambino dorme nella culla, la donna si mostra affaccendata a radunare la legna tagliata. Approfittando di un suo momento di distrazione l’attore che impersona il lupo, con il viso coperto da una maschera animalesca e il corpo avvolto in pelli, camminando carponi e con fare circospetto, esce dal bosco e rapisce il bambino, sollevandolo tra i denti. La madre tenta di inseguirlo e, gridando a gran voce tra atti di profonda disperazione, richiama il marito che sopraggiunge brandendo l’ascia. Ma il lupo è ormai lontano e a nulla valgono le ricerche affannose dei due, tra cui si svolge anche una scena di litigio, in quanto l’uomo accusa la moglie di essere stata poco vigile. Infine ambedue si gettano in ginocchio e con le braccia alzate verso il cielo prendono a invocare San Domenico Abate. È questo il momento in cui viene collocato sulla scena il quadro che lo rappresenta, al cui apparire ritorna il lupo che, con fare docile e mansueto, ripone il bambino nella culla, per poi scomparire di nuovo tra la vegetazione. Tra il sempre rinnovato entusiasmo del pubblico, i genitori riabbracciano il bambino e ha fine la rappresentazione. Sin dalla più remota antichità, il destino dell’Abruzzo è stato segnato dalla sua stessa natura, aspra e montuosa.

Le genti che qui abitavano sono state legate, ininterrottamente per almeno tre millenni, alla pastorizia che ne ha determinato le vicende e gli stili di vita: questo perché le conche montane, i vasti e brulli altipiani, le sassose pendici dei massicci abruzzesi sono stati ambiente elettivo di greggi e pastori. La transumanza ha costituito quindi il reddito di oltre la metà della popolazione divenendo il perno dell’economia, della società e della cultura abruzzesi. Fondamento costante di uno sviluppo così notevole è stato lo sfruttamento della complementarietà fra gli alti pascoli montani abruzzesi, inagibili d’inverno ma rigogliosi d’estate, e le erbose pianure del Tavoliere delle Puglie che, arse e steppose in estate, durante i mesi rigidi mantengono condizioni ambientali e climatiche ottimali. Il tragitto dei transumanti avveniva lungo una rete regolamentata di larghe vie erbose di circa 111 metri, i tratturi. Accanto a queste strade, esistevano in Abruzzo, già dai tempi italici, dei punti di sosta che mettevano in comunicazione la piana di Tivoli (Roma) con l’Adriatico attraverso la valle peligna, e che i Romani ampliarono costruendo templi e attingendo usanze e tradizioni dei luoghi dove essi sostavano.

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Esempio ne è Goriano Sicoli (AQ), dove oggi fra l’11 e il 12 maggio di ogni anno, in occasione dei festeggiamenti dedicati a Santa Gemma, si celebra una festa in cui una rappresentazione ha luogo proprio sul verde brillante del tratturo Celano–Foggia. Goriano fu probabilmente l’antica Statulæ, la cui strada di passaggio fu ampliata e denominata Consolare Valeria. Sull’antico tratturo era situato un punto di sosta dove avvenivano anche gli scambi commerciali dei viandanti e tutte le attività sociali, religiose e di incontro fra gli abitatori della zona. Questi complessi, in cui si praticava anche una forma di medicina del tempio, erano affidati quasi sempre alle donne, in relazione ad un pantheon in cui primeggiavano le Grandi Madri. Le offerte votive dovute a questo genere di divinità erano essenzialmente cerealicole, con una spiccata presenza di ciambelle, il cui valore simbolico era legato all’aspetto fecondativo dei riti. Il mese di maggio, e più precisamente la primavera, era il tempo in cui le popolazioni nomadi e semi-stanziali della zona si ritrovavano presso questi luoghi di culto per rinnovare il ciclo agrario e vegetativo dell’anno e rinsaldare patti e alleanze. È probabile che nella zona esistesse un insediamento sacro rifondato in età benedettina su forme cristiane e che in seguito la figura di Santa Gemma si sia inserita in un contesto già sensibile a figure femminili addette al culto, in una continuità formale non infrequente nell’ambito della religiosità popolare. Questo fin troppo riduttivo itinerario fra le tradizioni di maggio in Abruzzo non può lasciare nell’oscurità una ricorrenza tanto “diversa” da tutte le altre quanto affascinante, sia per la simbologia che la rappresenta, sia per l’ancora vivo interesse dei cittadini, attenti agli auspici e ai presagi fra superstizione e religiosità. Stiamo parlando di Loreto Aprutino (PE), uno dei paesi abruzzesi più belli, sia per gli antichi palazzi e i monumenti religiosi che lo caratterizzano, sia per lo scenario di colline ricoperte di oliveti in cui è immerso. Il lunedì di Pentecoste (in occasione dei festeggiamenti per il patrono, San Zopito) è teatro di una singolare processione a cui partecipa un bue bianco. Si tratta di un animale adulto che il giorno della festa viene addobbato con cura: dalle corna gli pendono nastri e fiocchi multicolori, specchietti lucenti e ninnoli; indossa una gualdrappa rossa e gli zoccoli sono curati e lucidi. In groppa al bue cavalca un bambino vestito di bianco, con il capo cinto da una corona di fiori e riparato da un ombrellino chiaro; il suo abito è ornato di ori e oggetti preziosi e in bocca regge un garofano rosso. Il bue, che è preceduto da uno zampognaro, dopo aver seguito il percorso processionale, si ferma sulla soglia della chiesa di San Pietro (in passato entrava nell’edificio sacro ed assisteva alle funzioni liturgiche e la gente usava trarre auspici di prosperità per l’annata agricola dall’osservazione degli escrementi che l’animale emetteva durante il rito religioso). Dopo la processione il bue è condotto per le vie del centro storico a rendere omaggio ai notabili del paese e, ovunque si ferma, il bambino che lo cavalca riceve piccoli doni alimentari. Soltanto una data è certa: la leggenda narra che il 22 maggio 1711, domenica, mentre il corteo della processione attraversava la campagna fra Pretore e Collatuccio, un certo Carlo Parlione, intento al lavoro nel proprio campo, non smise le proprie attività, anzi insultò i devoti poiché lui era costretto a sgobbare mentre loro cantavano; al contrario il suo bue si inginocchiò al passaggio della processione tra lo stupore degli astanti. Un tempo, quando la suddivisione di classe era ancora sentita, la festa, almeno per quanto riguarda il bue, era gestita dalla corporazione degli agricoltori; quella dei vetturali, ossia dei trasportatori di olio, si occupava invece della cavalcata del ritorno, il cui vincitore era premiato con un paliotto; agli artigiani, in passato assai fiorenti a Loreto per la produzione delle terrecotte e dei coltelli con il manico di osso, erano affidati altri aspetti organizzativi. Oggi il bue continua a camminare tra la folla e sul selciato delle vie cittadine, lasciando escrementi dalle cui forme e colori è possibile avventurarsi in profezie, e si inginocchia come fece il suo antenato nel 1711, ma non per miracolo bensì perché addestrato a farlo al suono di una zampogna … e i nostalgici sospirano che “non c’è più religione”. Vogliamo concludere con un omaggio al maggio fiorito e odoroso. Dal 1947 Rocca di Mezzo (AQ) ha un modo del tutto originale di festeggiare il ritorno della primavera. L’ultima domenica di maggio gli abitanti, prendendo spunto dalla fioritura di narcisi che ricoprono l’altipiano delle Rocche, si sono inventati una kermesse tutta particolare, una specie di carnevale fuori stagione, durante il quale il protagonista è questo splendido e profumatissimo fiore. Con il concorso di tutta la popolazione viene allestita una sfilata di carri allegorici animata da vari personaggi, tratti solitamente dalla scena politica. Carri, addobbi, personaggi ornati … tutto è realizzato con i narcisi che vengono pazientemente raccolti ed intrecciati con un lavoro che esige, data la caducità della materia prima, impegno e celerità. L’idea di utilizzare i fiori in cortei festosi che celebrino il ritorno della primavera è molto antica e in un certo senso trova la sua origine storica ancora nelle Floralia. A Rocca di Mezzo, tuttavia, questa tradizione ha una data di nascita precisa e recente, anche se, per l’entusiasmo e i consensi che suscita, si avvia a divenire un appuntamento fisso e una ricorrenza consolidata nel tempo, che entrerà sicuramente a far parte del costume festaiolo e turistico della zona.

 

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Classe 1956, perito elettronico industriale, ho conseguito attestati riconosciuti per attività su reti cablate LAN presso la IBM Italia. Ho svolto la mia attività lavorativa c/o Roma Capitale sino al 2020. Autore, nel 2014, del sito Abruzzo Vivo.

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