La chiesa di San Giuseppe a San Salvo è sorta, tra il IX e il X secolo, come chiesa di una cella monastica e poi del Monasterium Sancti Salvi, sul sito di un precedente abitato di età imperiale romana, dal nome ancora sconosciuto (Cluviae?). Per quanto non si trattasse del primo insediamento benedettino in zona (in precedenza c’erano già stati conventi cassinesi sulla destra del Trigno e il monastero volturnense di Sant’Angelo in Salavento, nell’area archeologica dell’attuale via San Rocco), esso divenne nell’XI- XII secolo un cenobio di una certa importanza, intorno al quale venne riedificato l’abitato medievale, per estensione chiamato di San Salvo.
Per il Piovesan, l’esistenza del Monasterium Sancti Salvi risulta dalle bolle pontificie di Alessandro III del 28 settembre 1173 e di Innocenzo III del 19 ottobre 1208, nelle quali si convalida una donazione ”di terreni, chiese e altri beni, fatta – nel 1095 – dal conte di Loritello, Roberto I, al vescovo di Chieti Rainulfo”. Di questo primo impianto, certamente romanico, della chiesa di San Salvo non rimangono che deboli tracce. Resti si possono individuare infatti solo nella cripta e alla base delle mura laterali. Il vecchio campanile, purtroppo demolito nel 1960-61, nella parte inferiore medievale evidenziava chiaramente murature di età romanica nonché materiali (tasselli di opus reticulatum e conci) di età imperiale romana riutilizzati nell’edificazione delle strutture; un campanile, peraltro, di tipo cluniacense, che fungeva anche da ingresso per i fedeli.
Una svolta importante per il Monasterium Sancti Salvi (come pure per il borgo circostante) si ebbe nel 1204, quando l’abate Dionisio (insieme con i suoi religiosi: Guillelmo, Tancreda, Ramisio, Ruggiero, Mauro e gli oblati Gualtiero e Rainaldo), riformandolo lo cedette all’abate di S. Maria di Carità, in Diocesi di Penne. Tale atto, segnando il passaggio del monastero di San Salvo dall’obbedienza benedettina a quella cistercense, ne consentiva l’immissione nel grande patrimonio di S. Maria di Carità o di Casanova, all’epoca la più potente abbazia cistercense d’Abruzzo. L’acquisizione della grangia di San Salvo e, poco dopo, nel 1210, di metà dell’attiguo Castello Manno (alla Bufalara) permise ai cistercensi di assicurarsi in breve la dotazione fondiaria di buona parte della pianura alla sinistra del basso Trigno. I cistercensi impressero vivacità alla ripresa economica in atto e stabilirono rapporti di scambio soprattutto con Casanova e Tremiti.
Nel 1255/56, dietro autorizzazione del papa Alessandro IV, ”un priore e sei monaci aprirono un ospedale nella grancia di Castello Manno”. Questo atto costituì la premessa per l’edificazione, intorno al 1259, dell’abbazia di San Vito del Trigno. Da allora, le sorti del territorio di San Salvo e del basso Trigno si sarebbero intrecciate e anzi saldate con quelle dei grandi possessi fondiari di Casanova e dei monasteri della val Pescara: con conseguenze rilevanti anche dal punto di vista economico e culturale. Figlia della linea di Clairvaux-Fossanova, penultima delle cinque abbazie cistercensi d’Abruzzo (successiva a S. Maria di Casanova -1197-, S. Maria Arabona -1208-, S. Spirito d’Ocre -1248- ma precedente a S. Maria della Vittoria -1274-), San Vito del Trigno fu posta a diretta dipendenza della Santa Sede ed insignita della giurisdizione di nullius dioecesis.
La chiesa e l’annesso monastero di San Vito sorsero nella contrada che oggi ne conserva il nome (dove si possono ancora osservare resti delle fondazioni e di alcune sepolture), a circa un chilometro dal fiume Trigno e a tre da San Salvo. La pianta degli edifici monastici ricalcava lo schema delle abbazie cistercensi, con la chiesa a nord, a copertura dei venti freddi, e il chiostro e il monastero a sud.
L’abbazia, oltre che costituire il centro amministrativo di un cospicuo feudo, lungo nove chilometri e largo circa quattro, entrò ben presto in possesso di notevoli beni fondiari, disposti in diverse località dell’Abruzzo e della Capitanata. Nel giro di pochi decenni, grazie alla protezione accordata dai sovrani angioini, essa acquisì chiese, monasteri e casali a San Vito di Forca di Penne e di Brittoli, San Vito di Capestrano, Santa Maria di Catignano, San Vito e San Giorgio del Pescara, San Martino in Valle di Fara, Santo Stefano di Tornareccio, San Martino di Paglieta e San Giovanni d’Archi. Umili, laboriosi, frugali, aperti verso il mondo e il mercato i monaci seguaci di Roberto di Molesme e di Bernardo di Chiaravalle bonificarono le aree paludose nei pressi del Trigno con canali e drenaggi, realizzarono un’agricoltura ed un allevamento innovativi (soprattutto nelle ”grance”, aziende affidate a dei conversi) e promossero lo sviluppo sociale e civile delle popolazioni, abolendo la servitù della gleba e i privilegi feudali. Numerose bolle papali, provenienti da Roma ed Avignone, indirizzate ad abati o monaci dell’abbazia di San Vito del Trigno, ne attestano la fortuna e la potenza tra il 1270 e il 1370. Il monastero e la chiesa di San Salvo, situate entro il feudo abbadiale di San Vito, se persero ogni autonomia per quasi due secoli e rimasero soggetti giuridicamente all’autorità dell’abate di San Vito, non per questo vennero trascurati. Certamente a dei monaci o a delle maestranze provenienti da San Vito si deve anzi la ristrutturazione – tra la fine del Duecento e i primi del Trecento – della chiesa di San Salvo (allora dedicata a S. Maria, come quasi tutte le chiese monastiche) nello stesso stile dell’abbazia, cioè in quel particolare modello architettonico proveniente dalla Francia e chiamato appunto gotico-cistercense. Ne fanno fede alcune particolarità stilistiche, che si ritrovano negli archetipi di Fossanova o Casamari, quali la presenza di contrafforti, di finestrelle monofore strombate sui lati, del basso (vecchio) campanile, che rimanda un poco a quello di Santa Maria Arabona.
Ma dopo il 1370, così come per Casanova, S. Maria Arabona e S. Maria di Tremiti, ebbe inizio una lenta e inarrestabile crisi anche per San Vito del Trigno. La situazione era divenuta pesante per gli effetti della peste nera del 1348 e del declino economico che l’accompagnò e seguì, cui si aggiunsero l’aggressività dei proprietari confinanti e i gravami fiscali, insostenibili a fronte di una diminuzione delle produzioni. Tuttavia fu ai primi del Quattrocento che San Vito ricevette i colpi più pesanti. Con i monaci che diminuivano nel numero, le grange e le attività che restavano abbandonate si preparava infatti il tracollo, e cioè l’abbandono dell’abbazia da parte degli ultimi religiosi. Ciò che avvenne, tanto per cause interne quanto per la mutata situazione esterna (persistenti difficoltà economiche, scorrerie di briganti e pirati ecc.), già prima del 1445, quando la badia, vacante, risultava in commenda, a Colantonio Valignani, vescovo di Chieti.
Gli ultimi abati e poi i commendatari di San Vito del Trigno, per il fatto che il vecchio monastero era rimasto in abbandono e andava progressivamente in rovina nel mentre cresceva l’importanza del piccolo monastero di San Salvo e del borgo che lo contornava, avevano intanto scelto di definirsi ”abati commendatari dei Santi Vito e Salvo”, eleggendo a sede proprio l’antico monastero di San Salvo (dinanzi al quale vennero anche realizzate imponenti fosse granarie, ritrovate in scavi archeologici recenti). Dei commendatari successori di Colantonio Valignani non si conoscono tutti i nomi ma certamente i principali, che sono: Francesco Lucentini de’ Piccolomini, già arcidiacono de L’Aquila, citato in un documento del 1498, poi papa con il nome di Pio III; Agostino Bennato, vescovo di Cassia; Giovanni Piccolomini, arcivescovo di Siena e poi cardinale di Santa Bibiena, attestato in una pergamena del 1522; Francesco Bandini de’ Piccolomini, arcivescovo di Siena, commendatario nel periodo 1542-1579; Giovanni Oliva, arcivescovo di Chieti, familiare del papa Pio V; Borghese Scipione Caffarelli, arcivescovo di Siena, nipote del papa Paolo V, commendatario per buona parte della prima metà del Seicento; Francesco Caffarelli, arcivescovo di Siena, il cui nome si riscontra in atti del 1653, 1669 e 1703; Caffarelli-Duca, arcivescovo di Siena (ancora commendatario nel 1742); Pier Luigi Carafa, cardinale, arcivescovo di Larissa, citato in atti del 1745 e 1751; Giovanni Costanzo Caracciolo, cardinale, originario di San Buono.
Durante il lungo periodo di amministrazione degli abati commendatari (oltre tre secoli e mezzo), il territorio dei SS. Vito e Salvo fu dunque legato strettamente agli interessi e alle vicende di importanti famiglie aristocratiche, particolarmente influenti presso la curia pontificia di Roma e nella città di Siena. Non è da escludere, pertanto, che opere d’arte, come le tele della Sacra Famiglia e della Pietà, siano giunte – nel Cinque-Seicento – nella chiesa arcipretale di San Salvo provenienti da botteghe romane o di altre città d’arte del Centro Italia; mentre è certo che l’urna contenente le reliquie di San Vitale, oggi patrono della cittadina, arrivarono a San Salvo – nel 1745 – direttamente dalla basilica di San Vitale in Roma. La commenda dei SS. Vito e Salvo coincise dapprima con la ripresa economica e civile (fino al 1570 circa) e poi con una fase di grande difficoltà (tra la fine del Cinquecento e la fine del Seicento) apportatrice di sensibili cambiamenti sociali e culturali per la popolazione di San Salvo. Nonostante la persistente ricchezza produttiva del feudo dei SS. Vito e Salvo, la lontananza degli abati commendatari dalle terre da loro amministrate avrebbe tuttavia permesso ai d’Avalos di Vasto e altri aristocratici dei dintorni (come i Bassano) di prendere in affitto le terre dell’abbazia ed estendere la propria egemonia a tutto il territorio del basso Trigno. Nella prima metà del Settecento, il potente, temibile marchese di Vasto Cesare Michelangelo d’Avalos si arrogò il diritto di assegnare le terre dei SS. Vito e Salvo esclusivamente ai suoi amici e vassalli. Si infittirono inoltre gli atti di abusivismo, che avrebbero portato all’usurpazione dell’intera Bufalara, di parte di Salavento e forse di parte della Padula. Ancora nel 1548, all’epoca dell’imperatore Carlo V, i confini delle terre badiali e dell’Università di San Salvo giungevano infatti fino alla confluenza del Treste nel Trigno: a fine Settecento, il territorio si era ridotto di circa un terzo.
La chiesa monastica di San Salvo, benché l’unica rimasta all’interno del possedimento dopo l’abbandono del monastero di San Vito da parte dei cistercensi, conobbe anch’essa nel periodo considerato delle difficoltà. Secondo il Piovesan, fu comunque proprio verso la fine del XVI secolo che venne ”insignita della prerogativa di matrice e arcipretale sotto il titolo di San Giuseppe”. Cosa non accertata (l’intitolazione potrebbe anche essere più tarda, di primissimo Settecento) ma possibile se teniamo conto che la grande tela posta sulla parete presbiteriale, una ”Sacra Famiglia” o ”Riposo durante la fuga in Egitto”, viene detta comunemente appunto di ”San Giuseppe”. Così finalmente con l’espressione di ”Santo Salvo” si sarebbe inteso il centro abitato e l’Università (il Comune); con quello di ”Abbazia dei Santi Vito e Salvo” l’intero feudo ecclesiale; e con il termine di ”San Giuseppe” la chiesa parrocchiale e arcipretale del borgo.
Dalla lettura di una relazione riguardante una visita pastorale del commendatario Giovanni Oliva, arcivescovo di Chieti e Vasto, datata 10 maggio 1568, si percepisce come le condizioni della chiesa non fossero in quel momento delle migliori. D’altronde appena due anni prima, nel 1566, la costiera abruzzese e molisana aveva subito una pesante devastazione ad opera di pirati turchi. L’estensore della relazione così riferiva: ”Cavalcammo verso l’Abbazia dei SS. Vito e Salvo, nella cui chiesa, fatte le solite preghiere dinanzi al Sacramento e le monizioni, [il vescovo] conferì la Cresima per un’ora. Quindi visitò il Sacramento dell’Eucarestia che trovò in un certo tabernacolo di legno sconveniente e collocato in un calice coperto con un corporale pieno di polvere e rosicchiato dai topi; c’erano anche dei frammenti, ma non si poté sapere se erano del Sacramento o no; trovò anche nello stesso tabernacolo una piccola urna, in cui c’era l’acqua del battesimo; comandò che venisse riposta in un altro luogo adatto; c’erano pure nello stesso tabernacolo tre ampolle con l’olio (dei catecumeni), del crisma e degli infermi; comandò che venissero riposte in un altro luogo decente. Continuando la visita, trovò il luogo destinato al fonte battesimale, ma senza la vasca per conservare l’acqua. Notò anche che attorno alla chiesa c’erano diversi sepolcri contro la Bolla di SS.; comandò che venissero rimossi, e che il tutto si riattasse convenientemente”.
Fino dunque a tutto il Seicento, considerate le ristrettezze economiche e la scarsa popolazione, la chiesa (di S. Maria o di San Giuseppe) e il contiguo monastero (ormai palazzo degli abati commendatari dei SS. Vito e Salvo) sicuramente furono interessati solo da interventi di ordinaria manutenzione e restauro. Ma nella prima metà del Settecento si ebbe un’importante ristrutturazione, consistente nel consolidamento dell’edificio e nella ricostruzione della parte superiore del campanile, in uno stile barocco ma che bene si armonizzava con il romanico e il cistercense delle origini. Anche la porta del campanile, che rimase oppure divenne portale principale della chiesa, fu imbarocchito (come si può osservare da alcune foto del vecchio campanile precedenti la sua demolizione). Ciò, riteniamo, soprattutto grazie all’interessamento del cardinale e commendatario Pier Luigi Carafa; il quale si premurò di restaurare la chiesa forse per renderla degna dell’arrivo dell’urna contenente le reliquie di San Vitale (la notte del 20/21 dicembre – 1745 -, solstizio d’inverno, coincidente in paese con il rito del ”Fuoco di San Tommaso”). Qualche anno dopo, nel 1751, il medesimo commendatario Pier Luigi Carafa, preoccupato per le sorti del feudo dei SS. Vito e Salvo, decise di concederlo in ”enfiteusi perpetua” ai padri Celestini di Santo Spirito del Morrone e di Santo Spirito del Vasto. In cambio i Celestini si impegnarono a pagare un canone annuo di 850 scudi romani e a non ”alienare, donare, distrarre, vendere e ipotecare i beni” appartenenti tanto al monastero quanto alle grance rimaste (S. Stefano di Tornareccio, S. Vito di Forca di Penne, S. Vito di Castellammare). Di conseguenza la Badia dei SS. Vito e Salvo, in qualità di nullius, venne aggregata alla Diocesi Morronese.
Sembra che il Carafa avesse inizialmente offerto la concessione enfiteutica all’Università di San Salvo, che però non rispose affermativamente. Ma già dal marzo 1752, l’amministrazione di San Salvo, data l’importanza del feudo badiale per l’economia collettiva, deliberò di rivendicarlo con diritto di prelazione; e un paio di mesi più tardi avanzò apposita richiesta ”al Luogotenente della Regia Camera della Sommaria di Napoli”. Passarono diversi anni, finché, il 18 agosto 1776, si giunse finalmente alla stipula, a Napoli, del tanto atteso contratto di enfiteusi perpetua. L’Università (Comune) di San Salvo e i suoi cittadini acquisivano così il feudo dei SS. Vito e Salvo con tutte le grance rimaste e i diritti, in cambio del pagamento di un canone annuo di 850 scudi romani (o 1060 ducati napoletani).
Tra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento, il territorio di San Salvo conobbe una notevole ripresa economica. Ne conseguì un sensibile incremento demografico, che permise al paese di passare dai circa 500 abitanti del 1742 ai circa 1.080 del 1801, per arrivare ai 2.727 del 1901. Intanto giungeva a conclusione anche la lunga vicenda della Badia dei SS. Vito e Salvo, che tra il 1789 e il 1811 passava sotto il controllo del re di Napoli e della Diocesi di Chieti e Vasto. Dal 1811, la Diocesi incamerò anche gli 850 scudi per l’enfiteusi perpetua del Comune di San Salvo, che sarebbero stati cancellati solo dopo le leggi Guarentigie del 1877 e le altre del 1890 e anni seguenti.
Un interessante documento sulla vicenda storica dell’abbazia di San Vito è costituito dalla ”Notizia Istorico-Diplomatica su l’Origine, Vicende e Governo della Real Badia de’ SS. Vito e Salvo in Abruzzo Citra”. Si tratta di un’opera di don Vincenzo Daniele, ultimo vicario della nullius dei SS. Vito e Salvo, il quale, nel giugno 1803, tenne peraltro una visita a San Salvo. Nella conseguente relazione, allegata alla ”Notizia”, il vicario forniva tra l’altro una sommaria ma preziosa descrizione dell’interno della chiesa di San Giuseppe. Così il Daniele: ”La Chiesa sotto il titolo di S. Giuseppe sposo di M.V., l’unica Parrocchiale ed urbana di San Salvo è costrutta a due navate uguali e parallele divise con pilastri ed arcate, con coro, sacristia, organo, ed altre parti integrali, benedetta, e non consecrata. Vi esistono otto Altari: 1. L’Altar maggiore, eretto in fondo alla prima Navata, e dedicato a S. Giuseppe. 2. L’Altare detto della Pietà per la immagine ivi collocata di M.a SS.a porta questo titolo, sito in primo luogo nel muro laterale destro della suddetta Navata. 3. L’Altare, detto di S. Vitale, di cui a’ 28 Aprile si solenniza con ispecial divozione il martirio: e vi sono osservati I. una teca reliquiaria in forma di croce, contenente varie Reliquie de’ SS. colle debite autentiche, II. il sacro Deposito di detto S. Martire: III. Da un lato l’immagine di S. Vito M., e dall’altro quella di San Salvo, Conf. e Pontef. Questa sola statua si è ordinato riformarsi nel termine di un anno, perché troppo rozzamente fatta. 4. Su lo stesso lato della prima Navata si visitò l’altare detto di San Michele, perché dedicato a questo Arcangelo. 5. A capo della seconda Navata, che resta in cornu epistolam della prima, fu visitato l’altare, detto del Carmine, perché dedicato a M.a SS. del Carmelo. 6. Di lato nella Navata medesima si visitò l’altare consacrato a M.a SS.ma del Rosario. 7. Seguendo la stessa linea fu visitato l’altare di S. Niccola Tolentino. 8. Finalmente si visitò l’altare di S. Carlo. […] Dopo gli altari si visitò il sacro Fonte […] il luogo dove si conservano i sacri oli […] le sepolture esistenti in detta Chiesa […] il Cimitero situato immediatamente presso la porta piccola della Chiesa medesima […] i Confessionali […] e tutto il corpo della Chiesa coperta con tegole e semplice tetto, con l’organo, coro e campanile”. Si tratta di una descrizione difficile persino da comprendere, considerati i cambiamenti, notevoli, subiti dalla chiesa di San Giuseppe nei due secoli successivi. In particolare sorprende quella ripartizione in ”due navate uguali e parallele’ (un’impostazione tipicamente gotica), di cui non si ha più traccia dopo la grande ristrutturazione di metà Ottocento. Interessante è la citazione degli altari della chiesa, perché conferma indirettamente la presenza di importanti tele, come quelle di San Giuseppe (o Sacra Famiglia, meglio “Riposo durante la fuga in Egitto”), della ”Pietà”, della Madonna del Rosario e della Madonna del Carmine; nel mentre attesta, insieme agli altri, i culti di San Michele Arcangelo, San Nicola da Tolentino, San Carlo e San Salvo (vescovo e confessore, cioè il Santo di Alby, in Francia, celebrato il 10 settembre), in seguito gradualmente abbandonati. Circa le ”sepolture” (il Cimitero extraurbano sarebbe stato inaugurato nel 1840) vengono menzionate non solo quelle del ”Cimitero” esterno, presso ”la porta piccola” della chiesa, ma anche ”le sepolture esistenti in detta chiesa”; il che fa pensare a delle tumulazioni soprattutto nella cripta o sotto il pavimento dell’edificio. A fianco della chiesa, per quanto non menzionato nel documento, sorgeva inoltre il palazzo abbadiale, con sala al primo piano cui si accedeva attraverso una scalinata esterna e pianerottolo. Oltre ai vani superiori, nel seminterrato del palazzo si trovavano un fondaco per il grano e una taverna. Il pavimento del piano sopraelevato era costituito da tavole in legno. Il palazzo abbadiale era inoltre direttamente collegato con la chiesa arcipretale, attraverso la sacrestia (poi sacrestia meridionale). Nello spazio tra l’edificio e la chiesa, in quello che era stato il chiostro, rimaneva una cisterna. Tale struttura, come si può agevolmente intuire, rimanda allo schema (per quanto incompleto) di un edificio conventuale: certamente l’antico Monasterium Sancti Salvi, ricostruito o meglio trasformato in palazzo abbadiale nella fase di crisi di San Vito e di governo degli abati commendatari. Nel passaggio dall’Università al Comune (1809), il palazzo abbadiale sarebbe divenuto la prima casa comunale di San Salvo (per essere infine demolito nel 1929 e sostituito dal palazzo delle scuole elementari, ora adibito ad uffici comunali).
Ma già una trentina di anni dopo la visita del Daniele le condizioni dell’arcipretale di San Giuseppe dovevano essere così peggiorate da indurre i parrocchiani e il popolo di San Salvo ad un importante intervento che ne avrebbe mutato gli stessi connotati stilistici (dal gotico cistercense con contaminazioni barocche al neoclassico allora imperante anche nelle vicine Santa Maria Maggiore e San Pietro in Vasto). Oltre alla necessità di una manutenzione o di un restauro di alcune parti di essa, si rendeva peraltro necessario un intervento di ampliamento, legato alla crescita della popolazione cittadina e della comunità religiosa locale. Lo sviluppo demografico stava infatti provocando non solo una ristrutturazione edilizia del vecchio borgo medievale (già interamente costruito, all’interno del quale iniziavano anzi le demolizioni di diradamento, giustificate da ragioni di carattere igienico) ma anche una consistente espansione urbana, che, partendo dal borgo medievale, si indirizzava lungo i principali assi stradali (gli attuali corso Garibaldi, via Savoia, via Fontana Vecchia, via Roma e via Trignina) uscenti o tangenti l’antico abitato. Dopo ripetute sollecitazioni dell’arciprete Ferdinando Persiani, dell’economo curato don Angelo Cirese e dell’arciprete Camillo Del Papa, e a seguito di accesi dibattiti e di qualche prima sfortunata iniziativa, a partire dal 1850 venne così avviato un ardito e radicale intervento di ricostruzione della chiesa arcipretale secondo un progetto dell’architetto Silvestro Benedetti da Vasto. Era allora appena divenuto parroco don Giuseppe Checchia, novello arciprete che impegnò in questa impresa il meglio delle sue energie, giacché la spesa preventivata superava i 3.000 ducati e necessitava dell’apporto non solo della comunità cittadina ma anche delle istituzioni locali e del Regno di Napoli. Sotto la guida di mastro Michele Lattanzio, la chiesa fu elevata nelle pareti, con lo sviluppo di due nuovi ordini di finestre (più quelle del sottotetto), nonché interamente rifatta all’interno, con navata unica e cappelle laterali su entrambi i lati. Nonostante il modello neoclassico predominante, la riedificazione mantenne (oltre che tratti delle murature laterali) alcuni elementi caratteristici del gotico-cistercense, come i contrafforti e il disegno ”tagliato” dell’abside mentre le cappelle laterali andavano a surrogare le basse e strette navatelle delle chiese cistercensi. All’interno, lo schema neoclassico, evidente nelle lesene dei pilastri terminanti con capitelli ionici e nel cornicione aggettante (sotto cui corre la scritta ”Domum tuam Deus decet sanctitudo orantibus autem in templo sancto tuo dimitte peccata et ostende viam bonam ad laudem’‘), avrebbe dotato San Giuseppe anche di volta, ridimensionandone lo slancio in altezza e impedendo la visione del tetto a capriate (con pianelle medievali e barocche). Al rinnovamento architettonico si unì in parte anche quella delle decorazioni, con stucchi e pitture dai colori caldi, e dell’arredo. Belle vetrate (bianche e gialle) furono montate sulle finestre; grandi, pregevoli lampadari in vetro vennero fissati ai soffitti, in prossimità degli altari laterali; balaustre in marmo e ferro battuto chiusero il presbiterio o limitarono alcuni altari. Nel 1859, Beniamino Sangiovanni donava alla chiesa arcipretale il quadro (su tela) del Sacro Cuore di Gesù e Maria, opera firmata dal noto pittore di Guardiagrele Franco De Benedictis.
Nel secolo successivo, tra gli anni 1944 e 1965, si ebbero dapprima una risistemazione del sacro edificio, a seguito soprattutto dei danni subiti nel 1943-1944, e poi, giustificato con l’ulteriore, sensibile crescita demografica del paese, un corposo intervento di ristrutturazione (su progetto dell’architetto Luigi Antonucci di Chieti) voluto dal parroco don Cirillo Piovesan. Nell’inverno 1944-45, il giovane arciprete don Giuseppe Cinquina, prematuramente scomparso pochi mesi dopo la sua nomina, risistemò infatti il pericolante tetto di San Giuseppe, danneggiato dal fuoco dell’artiglieria britannica (durante i combattimenti sul Trigno, nell’ottobre-novembre 1943) e da una successiva tromba d’aria (1944), e fece eseguire altri piccoli lavori di manutenzione. Nel 1946-47, con l’arrivo del nuovo arciprete Cirillo Piovesan, si ebbe un primo restauro della decorazione interna di S. Giuseppe. ”Negli anni 1957-59 fu rifatto il tetto, furono rinsaldate [con intonaco cementizio o consolidamento dei giunti] le mura esterne, all’interno la chiesa fu decorata ed arricchita di stucchi e di ori”. Infine, negli anni 1960-65 si procedette a quella ardita opera di ristrutturazione, che avrebbe ulteriormente modificato l’identità stessa del monumento. Demolita l’antistante casa dei Russo, abbattute la facciata ed il campanile, la chiesa di San Giuseppe fu infatti prolungata di circa nove metri (grazie all’aggiunta di una campata). La facciata e il campanile vennero riedificati, sempre su disegno di Luigi Antonucci, in uno stile di evidente imitazione del romanico modenese e pisano. La nuova facciata fu articolata su tre ordini, con colonne o colonnine decorative e archi ciechi; il portale sormontato da protiro, con colonne poggianti su leoni stilofori. Il campanile, anch’esso pseudoromanico, venne fatto terminare con bifore nella cella campanaria. San Giuseppe, dopo gli ultimi lavori, sarebbe stata consacrata dall’arcivescovo di Chieti, monsignor Francesco Loris Capovilla, nel 1967.
Nel 1983 si è avuto ancora un piccolo intervento di decorazione interna della chiesa, specie nella volta. Da allora, la chiesa di San Giuseppe è stata interessata soltanto da attività di manutenzione. La necessità di un intervento più radicale, ma interamente di restauro, si è fatta via via più pressante verso la fine degli anni ’90 del Novecento, con la comparsa di alcune lesioni strutturali e con l’esigenza di arrivare ad una migliore conoscenza del monumento, pervenutoci quasi illeggibile a seguito dei numerosi rifacimenti subiti nel corso del tempo. Tra la fine del 1997 e i primi del 1998, il parroco di San Giuseppe, don Raimondo Artese, allo scopo di acquisire pareri e predisporre un piano di interventi sulle priorità del momento (distacco dell’intonaco cementizio esterno e ripulitura delle pareti settentrionale e absidale, bonifica dalle infiltrazioni di acqua del campanile e del tetto, restauro dei dipinti della chiesa) avviava una serie di contatti con tecnici e ditte. Nell’estate del 2001, per sostenere il parroco e la parrocchia nell’onerosa attività che si prospettava, nasceva un Comitato per il restauro di San Giuseppe (formato da Giovanni Artese, Erminio Cardarella, Andrea Ramundi e Vitale Artese) che avviava una raccolta fondi pro-restauro tra i cittadini e sollecitava alcuni enti pubblici ad intervenire (tra i più solleciti nell’opera di sostegno il consigliere regionale Eugenio Spadano e l’associazione culturale ”Vitale Onofrillo”). Così, nel novembre 2001, si redigeva un primo piccolo progetto di restauro architettonico, a cura dell’arch. Angiolino Chiacchia, che, dietro Nulla Osta della Soprintendenza BAAAS del 10 luglio 2001 e la supervisione della medesima (nella figura del dott. Carlo Alberto Natalizia), consentiva finalmente di dare inizio ai lavori architettonici (distacco dell’intonaco cementizio sulle pareti esterne nord e absidale della chiesa) mentre i primi tre quadri (le tele della ”Pietà”, del ”Sacro Cuore di Gesù e Maria” e della ”Madonna del Carmine”) erano inviati a restauro. Le murature scoperte sulla parete absidale evidenziavano in gran parte un’opera ottocentesca (con mattonacci), certamente relativa alla grande fase di ristrutturazione del 1850/60. Contemporaneamente venivano ritrovate la porta e due finestrelle dell’antica cripta, quest’ultima inaccessibile perché riempita di calcinacci e materiali di sterro scaricati durante l’ultima ristrutturazione, quella del 1960-65. Sul fianco settentrionale tornavano invece alla luce non solo murature ottocentesche ma, nella parte centrale, murature medievali, in opera mista con pietra di fiume spaccata e laterizio. Proprio nella muratura medievale era poi scoperta una seconda monofora goticizzante in pietra calcarea (del Due-Trecento) in parte crollata oltreché interamente murata. Questo prezioso elemento architettonico permetteva di dedurre che le finestre laterali della chiesa medievale sorgevano appunto a minore altezza di quelle ottocentesche, con l’ordine tipico delle chiese gotico-cistercensi italiane; e che il terreno circostante la chiesa si trovava ad un livello leggermente più basso dell’attuale. Inoltre, sempre su quel fianco, era ritrovata una porta laterale della chiesa (una sorta di ”porta dei morti”), usata fino al 1960 per uscire dalla sacrestia settentrionale e in seguito richiusa. In tal modo, si acquisivano nuovi e preziosi elementi di conoscenza storica del monumento; mentre diveniva evidente che la ristrutturazione più marcata (e dunque caratterizzante) era appunto quella ottocentesca; sicché si decideva di procedere al restauro conservativo attenendosi ai dati emersi, scegliendo soluzioni non rigide, in grado di evidenziare le trasformazioni senza produrre effetti esteticamente sgradevoli. A tal fine, si individuava una tipologia di restauro non radicale, nel senso che le murature, soprattutto quelle ottocentesche – a mattonacci dal colore rossastro – sarebbero state sì lasciate a vista (evitando una nuova intonacatura) ma senza eliminare la scialbatura originaria; il che, oltre a proteggere il laterizio, avrebbe aggiunto alle pareti un tocco cromatico particolare. Inoltre si decideva di procedere al restauro delle finestre, sia le due medievali che le restanti ottocentesche, intervenendo nel consolidamento e ripulitura tanto degli elementi strutturali (stipiti, volte, soglie ecc.) quanto degli infissi (elementi metallici, vetrate ecc.).
Intanto si evidenziavano sempre più delle crepe nelle murature portanti e scrostature dell’intonaco all’interno della chiesa (per infiltrazioni di acqua dal tetto); quando, nell’ottobre 2002, l’inatteso, drammatico terremoto di San Giuliano di Puglia, scollando la volta dalla parete di fondo e accentuando le lesioni delle arcate interne, rendeva di fatto necessario un nuovo progetto di intervento, stavolta organico e complessivo. Tale progetto, poi redatto dagli architetti Angiolino Chiacchia, Stefania Bolognese e Denis Pratesi, veniva approvato dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici de L’Aquila in data 10 settembre 2003. Data la sua complessità e onerosità (la spesa totale prevista per gli interventi si aggirava sugli 800.000 euro), i lavori erano suddivisi per fasi. Si procedeva innanzitutto al consolidamento antisismico dei muri e dei contrafforti e al rifacimento di entrambi i tettucci laterali (2003-2004); quindi al restauro architettonico delle pareti esterne absidale e settentrionale (2004), mentre (con il contributo degli sponsor Mario Argirò, Conad Raspa e Consorzio ICEA) si riusciva anche a produrre una ”Guida storico artistica di San Salvo e dintorni” in grado di evidenziare le peculiarità della chiesa di San Giuseppe e del centro storico cittadino. Dopo una breve pausa, i lavori riprendevano nel 2005-2006, con il consolidamento interno del campanile, lo scoticamento delle pareti esterne della sola navata e infine il rifacimento e consolidamento antisismico del tetto maggiore (della navata) mantenendo le capriate originarie e l’impianto ligneo, con copertura di pianelle e coppi. Nell’estate 2007 si è infine proceduto al restauro architettonico delle pareti esterne della navata. Per quanto riguarda la cripta, a seguito di un piccolo saggio esplorativo si è potuto capire che effettivamente essa accoglie lo sterro dell’antico campanile romanico-gotico demolito. Per tale ragione, e a seguito della scoperta, nel 2005, nello spazio retrostante la cripta di San Giuseppe, di un importante monumento paleocristiano (forse una tomba gentilizia del VII/VIII sec.) la Soprintendenza archeologica ha deciso che l’eventuale svuotamento e recupero della cripta di San Giuseppe dovrà essere attuato con metodologie scientifiche e dunque come scavo archeologico a tutti gli effetti.
Molto ci si aspetta da questo intervento, in quanto non solo farà luce sulle caratteristiche di quella particolare parte della chiesa ma consentirà di visionare alla base le strutture portanti dell’edificio e i tratti più antichi delle murature interne. Gli scavi archeologici in piazza San Vitale del 2002/2005 hanno in ogni caso già implicitamente confermato che oltre a gran parte del borgo medievale anche la chiesa di San Giuseppe è stata riedificata su fondazioni o strutture di età romana e, perlopiù, con materiali di spoglio delle ”antiche fabbriche” di età imperiale. La chiesa di San Giuseppe (già di S. Maria) ha dunque finalmente cominciato a svelare la propria storia e vicenda costruttiva; e certamente i lavori previsti completeranno il quadro di conoscenza del monumento, che può definirsi unico non solo per le particolarità tipologiche e l’importanza urbanistica (vero perno dell’intera città) ma soprattutto per il suo valore spirituale e culturale, in quanto simbolo (insieme alla Porta della Terra) della stessa identità ”salvanese”.
Autore: Giovanni Artese
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