Dove un tempo c’era un lago paludoso oggi brillano parabole spaziali: il Fucino è il luogo in cui Roma antica e spazio si guardano negli occhi
Per secoli il lago Fucino è stato un punto fisso nelle descrizioni del centro Italia. Già Strabone, geografo greco, lo cita come uno specchio d’acqua così esteso da sembrare un mare, accanto alla città fortificata di Alba Fucens. Nota le sue oscillazioni: a volte le acque salivano fino alle falde dei monti, altre volte si ritiravano lasciando scoperte zone paludose poi trasformate in campi fertili.
Anche Seneca dedica pagine al Fucino parlando di acque “raccolte” e “sorgive” nello stesso luogo. I monti convogliavano le piogge nel bacino, mentre vene sotterranee alimentavano il lago in profondità. Il risultato era un grande specchio d’acqua stagnante e senza emissari, soggetto a variazioni ma capace di mantenere nel tempo il suo aspetto generale. Un lago chiuso, ricco ma pericoloso.
Gli antichi conoscevano bene il lato meno romantico del Fucino: l’area era in gran parte paludosa, con malattie, terre incolte e difficoltà di movimento. Non è un caso se i Marsi chiesero più volte a Roma di intervenire per regolare le acque. Giulio Cesare pensò a un emissario ma non fece in tempo a realizzarlo; Augusto rifiutò il progetto; l’opera verrà ripresa solo con l’imperatore Claudio.
Tra il 41 e il 52 d.C. Claudio apre il grande emissario del Fucino, scavando una galleria sotto il monte Salviano per collegare il lago al fiume Liri. Tacito racconta che, per celebrare la fine dei lavori, l’imperatore organizzò sul Fucino una spettacolare naumachia, una battaglia navale simulata, ispirata ai giochi messi in scena da Augusto vicino al Tevere. Migliaia di spettatori affollarono le rive per assistere al doppio evento: lo scontro tra le navi e la prova di forza della nuova gigantesca opera idraulica.
Nonostante l’emissario, il lago non fu prosciugato del tutto. Le acque calavano, le paludi si riducevano, ma il Fucino rimase a lungo un mare interno d’altura, con pesca, canneti e una cintura di pendii coltivati.
Intorno al Fucino, prima del definitivo prosciugamento, la vita ruotava attorno alla pesca, alla pastorizia e soprattutto alla viticoltura. Il lago mitigava il clima: i pendii esposti al sole erano coperti di vigneti, spesso piccoli e familiari, ma diffusi in tutti i paesi rivieraschi. La tradizione orale ricorda che quasi ogni famiglia possedeva una vigna o un pergolato e produceva vino per uso domestico.
Quando, nell’Ottocento, il principe Torlonia porta a termine il prosciugamento del Fucino (1875), l’equilibrio cambia. Al posto del lago resta una grande piana coltivabile, ma la vite comincia a soffrire: senza il serbatoio d’acqua che stabilizzava le temperature, le uve maturano a fatica. Nei decenni successivi, tra clima più rigido e attacco della fillossera negli anni ’30, molti vigneti scompaiono. In compenso, l’antico fondale lacustre diventa una delle aree agricole più produttive d’Italia.
Oggi la piana del Fucino è un grande reticolo di canali e strade perfettamente allineate, segno evidente di un paesaggio creato dall’uomo. Campi coltivati si alternano a infrastrutture moderne, con un contrasto quasi surreale: in mezzo alla campagna abruzzese si alza il Centro spaziale del Fucino, uno dei più importanti hub di telecomunicazione via satellite in Europa.
Gestito da Telespazio, il centro conta decine di parabole di ogni dimensione ed è stato protagonista di passaggi storici, come la ricezione e ritrasmissione delle immagini dello sbarco sulla Luna del 1969. Dal Fucino oggi transitano segnali che raggiungono oltre cento Paesi, si monitorano i satelliti e si osserva la Terra dallo spazio.
Nel raggio di pochi chilometri, però, restano tracce di tutte le epoche: il sito di Alba Fucens, le gole del Sagittario, i ricordi delle vigne scomparse e le leggende legate al vecchio lago, come quella che ispira il film “La leggenda del lago Fucino”. È un paesaggio dove le storie di Cesare, Claudio, i Marsi, i contadini e gli ingegneri spaziali finiscono per convivere sullo stesso altopiano.
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