La chiesa di San Michele Arcangelo a Vittorito

Una facciata semplice, sotto un tempio romano e dentro affreschi gotici e aquile longobarde: San Michele è un piccolo labirinto di pietra e memoria.

chiesa di San Michele Arcangelo a Vittorito
La chiesa di San Michele Arcangelo a Vittorito – abruzzo-vivo.it

Chi guarda la chiesa di San Michele da fuori vede una costruzione semplice, quasi povera. Dietro quella facciata però si incastrano secoli di storia: dai Longobardi ai Romani, fino ai restauri del Novecento. È uno di quei luoghi in cui basta entrare per sentire che il tempo non è lineare, ma stratificato.

Le origini più antiche vengono fatte risalire all’VIII–IX secolo, in piena epoca longobarda. Non è un dettaglio da poco: la dedicazione all’arcangelo Michele, guerriero e difensore, era quasi un marchio di fabbrica di questo popolo. Dove i Longobardi arrivavano, spesso comparivano santuari micaelici. Nelle nostre zone si registra un loro insediamento di 28 famiglie a San Benedetto in Perillis, segno di una presenza stabile e organizzata.

Sotto l’attuale pavimento, nel 1970 gli scavi della Soprintendenza hanno svelato un’altra storia: le fondazioni di un tempio romano di età imperiale (I–II secolo d.C.). È emersa la cella, lo spazio centrale che ospitava il simulacro della divinità, impostata su una piattaforma sostenuta da un lungo muro in opus reticulatum e opera incerta. Oggi lo si intuisce appena: una gradinata moderna copre buona parte di queste strutture.

Proprio sulle murature perimetrali dell’antica cella poggiano le tre navate medievali della chiesa attuale, dalla pianta quasi quadrata e senza abside sporgente. I pilastri sono nudi, in conci regolari, con basi semplici; ma basta alzare gli occhi per cogliere un dettaglio raro: a destra le arcate sono a sesto acuto (gothic style), a sinistra a tutto sesto (romanico). Una doppia anima che racconta rifacimenti successivi, probabilmente dovuti a terremoti e alluvioni.

La facciata, orientata, è costruita con blocchi ben collegati, patinati dal tempo. Due piccole finestre e un portale in pietra la interrompono. Sull’architrave, tra iscrizioni consunte, spicca una data: 1405. Il testo cita un certo “Cola Amici” legato a una cappella di San Nicolò e Santa Maria. In passato qualcuno ha voluto identificarlo con Cola dell’Amatrice, ma la cronologia smentisce la suggestione: la pietra è precedente alla nascita dell’artista, quindi proviene con ogni probabilità da un altare interno riutilizzato.

Anche il terreno intorno alla chiesa parla latino

Nell’Ottocento vennero alla luce un mosaico pavimentale e numerose mensole in pietra lavorata. Alcune lapidi funerarie romane, oggi murate all’esterno, conservano iscrizioni dedicate a giovani decurioni e alle loro famiglie: brevi biografie incise nella pietra, con formule come Locus datus decreto decurionum che rivelano il peso civico di quei personaggi.

Dentro, l’impatto è immediato. Sulla sinistra, di fronte al secondo ingresso, si apre un arco ogivale affrescato con un San Sebastiano a figura intera e frammenti di San Cristoforo. Ma il cuore visivo della chiesa è il tabernacolo gotico addossato in fondo alla navata centrale: due colonne rotonde davanti, due ottagonali dietro, una volta a crociera sostenuta da costoloni prismatici, tutto rivestito di affreschi quattrocenteschi.

Nelle vele campeggiano i quattro evangelisti, sulle pareti laterali quattro santi in piedi; sul fronte, una Annunciazione di gusto abruzzese, con il raggio di luce che parte dall’angelo e porta lo Spirito Santo verso Maria con un libro aperto. Ai lati di una finestrella absidale si distinguono un Ecce Homo e un Cristo in mandorla, ciascuno affiancato da un angelo ceroferario.

Ancora più indietro nel tempo riportano due lastre scolpite dell’VIII secolo, legate all’arredo liturgico altomedievale: un frammento di ambone decorato da intrecci fitomorfi e una lastra con un’aquila che stringe un animale (probabilmente un agnello), sormontata da una grande croce greca e circondata da tralci e fiori. Sul bordo compare la misteriosa firma “URSU”, forse il lapicida: un nome che alimenta un piccolo dibattito tra studiosi, ma che rende ancora più concreta la mano che ha scolpito quella pietra.

Nel Novecento la chiesa ha vissuto restauri importanti: demolizione delle volte e rifacimento del tetto nel 1952, pulitura e consolidamento degli affreschi negli anni ’40 e ’80, fino al ripristino dell’<strong’altare basilicale con una mensa antica e un capitello corinzio reimpiegato in facciata. Un puzzle di materiali che continua a tenere insieme – letteralmente – duemila anni di storia in pochi metri di pietra.

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