Gabriele D’Annunzio e Vinca De Filippis Delfico

 

Vinca, è lei la fanciulla della quale stiamo parlando, era la più giovane delle quattro figlie di don Filippo De Filippis Delfico, nobile teramano, discendente da uno dei personaggi più illustri d’Abruzzo, il filosofo illuminista Melchiorre Delfico.

Aveva 16 anni quando d’Annunzio (di due anni più giovane) l’aveva incontrata lungo la spiaggia di Montesilvano, dove trascorreva l’estate nella residenza di famiglia. Troppo bella, ma soprattutto troppo nobile per il giovane pescarese che non avrebbe mai potuto varcare gli austeri e patrizi cancelli di quella dimora. Eppure la favola era destinata a continuare. Nel 1881, Vinca, appena ventenne, sposò Simone Sorge, un 23enne proprietario terriero della Vibrata e, naturalmente, seguì il marito nel palazzo avito di Nereto. Don Simone era intimo di Francesco Paolo Michetti e, vista l’amicizia che legava quest’ultimo allo scrittore, il gioco… era fatto.

Il giovane rimase folgorato dall’avvenenza, dall’intelligenza di quella donna, ma, di contro, dovette irritarlo il fatto che ella gli avesse preferito un proprietario terriero. Così che, forse per spirito di “vendetta”, diede il suo nome alla protagonista di una novella, affatto diversa nel carattere e nella moralità da Vinca, persona, come un tempo si diceva, di preclare virtù.

A madonna Vinca i giovani artisti del cenacolo francavillese dedicavano dipinti, libri, note e stornelli: il ritratto eseguito da Michetti, le prime edizioni dei romanzi di d’Annunzio, la gavotta di Vittorio Pepe.

Era soprattutto Michetti a cercare di strappare la giovane nobile dalla monotonia di quella vita con frequenti lettere, inviti a Francavilla e visite improvvisate a Nereto, A queste ultime si univa, con entusiastico e spiegabile interesse, Gabriele d’Annunzio.

A questo punto si apre un capitolo -breve- della vita dannunziana, ignorato dalla biografia ufficiale, ma non colpevole di questa lacuna. Fu lo stesso Gabriele, in verità, a non trasformare mai l’amicizia con Vinca in un evento letterario. Insolito appare il suo riserbo in considerazione di quanto fosse solitamente prodigo nel descrivere i luoghi visitati e le sue conoscenze. L’esperienza teramana passò, quindi, sotto silenzio, relegando l’intera provincia in un angolo d’Abruzzo, visti gli scarsi legami che con essa avrà anche in seguito. Il silenzio sceso sulla aristocratica amicizia può però ben comprendersi se si tien conto che c’era ben poco di cui vantarsi visto che la Sorge, rimanendo fedele ai suoi principi, era riuscita a resistergli.

Nel periodo in cui ha inizio il carteggio, pubblicato da Paola Sorge con l’editore romano “Le impronte degli uccelli“, d’Annunzio, da poco più di un anno, aveva irretito la “bella romana” Barbara Leoni, l’ispiratrice del Trionfo della Morte. Il fitto epistolario con Barbarella, edito nel 1954, precede solo di qualche giorno quello con la Sorge: 9 giugno 1887, l’uno; 25 giugno 1887, l’altro. Eppure, se in molte altre occasioni d’Annunzio darà la possibilità di sovrapporre -quasi che si tratti di fotocopie – interi periodi di lettere inviate ai vari corrispondenti, in queste è difficile, se non impossibile, trovare elementi comuni. E comprensibile che volesse nascondere alla donna amata (!) le gioie che gli procuravano le gite a Nereto, ma addirittura ogni qualvolta che ne parlò alla Leoni lo fece sempre con tono seccato, quasi che altri lo costringessero ad andarci.

 

 

Il 18 giugno, alla vigilia di una di queste sortite, scrive alla Leoni: «Lunedì sono impegnato per un viaggio a Nereto e nella restante provincia di Teramo. Cercherò di sottrarmi e di partire. Ma non so se riuscirò, perché tu sai che non sono solo e che ho meco un ospite». Una settimana più tardi, il giorno 25, a madonna Vinca, nel comunicarle che lui e gli amici non sarebbero più andati a trovarla, scrive: «Lunedì dunque noi non verremo a battere alla vostra porta, non verremo a chiedere ospitalità nella vostra casa che già ci accolse con tanta larghezza di cortesia; né ci sederemo alla mensa illuminata magnificamente dal vostro sorriso […]. La memoria dei bei giorni di Nereto sarà assai lunga e assai dolce per tutti».

«La memoria dei bei giorni di Nereto» e quella casa che «già li accolse con tanta larghezza di cortesia», lasciano intendere che gli amici del Cenacolo da tempo fossero abituati a recarsi a Nereto, magari di ritorno da qualche escursione sul Gran Sasso.

La cittadina costituiva una tappa obbligata anche in considerazione delle lunghe distanze e soprattutto della difficile percorribilità delle strade. Durante quelle accoglienti soste, d’Annunzio non era soltanto attratto dalla «mensa fiorita» e dal «vino di topazio e di rubino» di casa Sorge. Egli era letteralmente rapito dalla padrona di casa, così vivacemente intellettuale e così severamente salda nei suoi principi morali. Il poeta sperava di poterla conquistare, confidando nel fatto, forse, che quella donna avrebbe finito col cedere alle lusinghe di un mondo sicuramente più vicino (con le debite proporzioni!) ai salotti intellettuali teramani dai quali la famiglia discendeva che non alla angusta realtà di quella cittadina.

Il 2 luglio, in occasione di un’altra visita all’amica teramana, per giustificare alla Leoni il suo silenzio scrive disperato: «Dovetti partire per Nereto e son rimasto la tre giorni, fino ad oggi, vagando per paesi dove non c’era posta e non c’era telegrafo… ». Adorabile bugiardo! A Nereto, non solo c’era l’ufficio postale; c’erano la Pretura, la Cassa di Risparmio, un’associazione di mutuo soccorso oltre ad avere una sviluppata attività commerciale e artigianale e a vantare uno dei cinque mercati più importanti della provincia.

D’Annunzio gioca, adesso, a carte scoperte. Il 9 marzo 1888 comunicò a donna Vinca di doversi recare a Teramo ad una festa, sperando, poi, di poterla andare a trovare, sia pure per «una visita breve»: «Ho un gran desiderio di rivedervi». Ma è con la lettera dell’8 settembre dell’88 che il 25enne Gabriele confida, ormai senza remore, le sue pene amorose: «Avete mai pensato che da quasi dieci anni a intervalli io giro intorno a voi e sono attratto dal vostro fascino? Ero fanciullo e camminavo lungo la riva del mare, alla ventura, con la vaga speranza d’incontrarvi. Sono un uomo corrotto dalla esperienza della vita, provato dal dolore, e tendo le braccia verso di voi come verso la mia chimera più desiderabile. Che avete voi? Qual segreta attrazione è ne’ vostri occhi varianti come un’acqua profonda che chiuda in sé strani tesori?».

Il 18 settembre, dieci giorni dopo la sconvolgente confessione, allo scrittore, che si trovava a Francavilla, ospite dei Michetti, arrivò da Nereto un cesto di pesche, e di altri splendidi frutti, forse gli ultimi dell’estate che stava per finire. Sul biglietto che l’accompagnava era scritto per il “Signor d’Annunzio”: come a voler mostrare un signorile distacco da quella dichiarazione. Strano destino subì la lettera dell’8 settembre. La Sorge la strappò nel 1890, forse dopo aver letto il Piacere, ma solo dopo averne fatto una copia.

Il 13 maggio 1889 d’Annunzio aveva pubblicato il Piacere con la casa editrice Treves. Ne mandò subito una copia con dedica a Vinca che il 21 maggio, appena una settimana dopo, gli rispose mostrandosi sconvolta dalla lettura appena terminata. Nel protagonista Andrea Sperelli aveva chiaramente ritrovato d’Annunzio ma, soprattutto, in Maria Ferres (ipotizza Paola Sorge) aveva rivisto se stessa. «Voi non saprete mai -confessa Sperelli- fino a qual punto la mia anima è vostra…». Parole che a Vinca suonarono famigliari. Solo allora, però, si rese pienamente conto della corruzione e del cinismo di quell’uomo. Eppure, sorretta dalla Provvidenza e da una fede incrollabile, ella non aveva ceduto.

Il 21 maggio si rivolse all’amico: «Ma perché scrivete voi questi libri?… Un giorno dovrete renderne conto a Dio […]. Perché la vostra penna, che potrebbe sollevarsi altissima, la degradate così, costretta incessantemente nella miseria la più triste? […]. Voi siete Andrea Sperelli, vi siete ricopiato in ogni minima piega dell’animo […]. Io non so capire come siete voi, chi vi ha traviato così… come potete scrivere perennemente in un’atmosfera corrotta… Io non so capire…». E chiude: «[…] rifugiandomi nella mia solitudine, ho benedetto il mio piccolo paese e la semplicità della mia famiglia».

 

 

Quell’episodio, quella lettera avrebbero potuto turbare un’amicizia, interrompere bruscamente una favola bella. Così non fu. D’Annunzio si spogliò dei panni del corteggiatore per tornare a vestire quelli dell’amico e donna Vinca, ingenuamente, conservò la speranza di poterlo redimere. Egli continuò a frequentare casa Sorge, insieme a Michetti, fino al 1894.

Qualche anno più tardi, Vinca, che intanto si era tenuta informata delle tumultuose vicende sentimentali di lui, gli scrisse un biglietto firmandosi «una vecchia amica affatto diversa da tutte le vostre altre». Prudentemente, però, quel biglietto non arrivò mai a destinazione. All’età di 49 anni Vinca Sorge fu colpita da una malattia che lo stesso prof. Murri, un luminare dell’epoca, non seppe diagnosticare. Nel 1910, il marito e i figli (ne aveva avuti sette) preoccupati per la sua salute, cominciarono a far costruire una villa sulla riviera di Pescara, sperando che il clima marino le avrebbe giovato. Ma in quella sontuosa dimora ella non entrò mai. Mori il 23 maggio 1911.

Una data nella cappella di famiglia, al cimitero di Nereto, racconta la fine di questa favola.

 

Intervento (mai pubblicato) realizzato in occasione della presentazione del libro di Paola Sorge “Sono dieci anni che vi giro intorno”, fatta al ristorante “Villa Corallo” di Sant’Omero (TE) il 19 ottobre 2001, sul carteggio tra Gabriele D’Annunzio e la nonna Vinca.

 

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Classe 1956, perito elettronico industriale, ho conseguito attestati riconosciuti per attività su reti cablate LAN presso la IBM Italia. Ho svolto la mia attività lavorativa c/o Roma Capitale sino al 2020. Autore, nel 2014, del sito Abruzzo Vivo.

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