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Ricostruzione e città storiche in Abruzzo nel secondo dopoguerra

Lettopalena

Quando gli ultimi tedeschi lasciano l’Abruzzo, nel giugno del ’44, il quadro che la regione presenta è drammatico. Enorme è il numero delle vittime, tra morti e feriti . Il paesaggio è sfigurato; dappertutto sono cumuli di macerie, con case, strade e ponti abbattuti. Oltre che butterato dai crateri delle esplosioni, il terreno è segnato da scavi, trincee e camminamenti; interi boschi sono incendiati o recisi . L’economia è allo stremo, con un’agricoltura, da sempre principale supporto della vita locale, ridotta in stato miserevole, e un’industria, già rudimentale, devastata nei suoi scarni servizi . Ma è il patrimonio edilizio quello chiaramente più provato, anche per l’effetto materiale che le macerie producono sull’immaginario collettivo. I censimenti sui danni di guerra registrano oltre 15.000 abitazioni distrutte e quasi 5.000 danneggiate, con un numero di senza tetto ammontante a oltre 100.000 unità. Al di là delle cifre complessive, è difficile avere un quadro chiaro dei danni portati dalla guerra in Abruzzo. Le stime ufficiali contrastano infatti con quelle “locali”, a loro volta diverse in funzione della fonte che le procura. Se le stime fornite dai diretti danneggiati sono influenzate dall’impatto psicologico tremendo, oltre ogni aspettativa, le stime messe a punto dalle amministrazioni locali chiamate a chiedere i risarcimenti sono condizionate dalla speranza di aumentare, con i numeri, anche il pubblico sussidio; dal canto loro, i calcoli del Genio Civile sono supportati da pregiudizi di incolumità che portano a vedere dissesti anche dove non ci sono, e quelli dei progettisti chiamati a redigere i piani di ricostruzione risultano marcate da situazioni in fieri, con interventi in corso e poca possibilità per loro di avere un profilo chiaro delle singole realtà. è questo il motivo per cui, come nella conta dei morti, anche in quella dei danni al patrimonio, i numeri hanno solo un valore simbolico, utile ad avere un quadro della situazione ma mai a rappresentare una condizione di verità. Ad aumentare la confusione tra danni reali e danni percepiti sono le tante immagini fotografiche, soprattutto aeree, dei centri distrutti.

 

 

 

 

Dall’alto gli edifici appaiono infatti provati ma non abbattuti, con gli orizzontamenti e le tramezzature crollati per effetto dei bombardamenti e degli incendi, ma con i muri perimetrali spesso ancora in piedi, soprattutto quando visibilmente risarciti dopo i danni portati dai terremoti, da sempre ricorrenti in Abruzzo. La mancanza di criteri uniformi nell’accertamento dei danni ha prodotto cifre, oltre che approssimate, contraddittorie, riferite talvolta al numero dei vani distrutti, talaltra a quella degli edifici, estremamente difficili da individuare in una regione le cui città erano da sempre cresciute per accorpamenti successivi, addossate le une sulle altre, su siti sacrificati da condizioni geomorfologiche in genere aspre, e dove l’esistenza di servizi e infrastrutture era praticamente sconosciuta alla maggioranza della popolazione. L’acqua mancava anche nelle città più grandi, le strutture scolastiche e sanitarie erano insufficienti se non del tutto assenti, le strade, anche quelle principali, risultavano spesso mancanti di pavimentazione. Indipendentemente dalla fonte, sono tali circostanze che hanno contribuito, dopo gli eventi bellici, a far sembrare la regione più danneggiata di quanto non fosse realmente, scambiando con le cose distrutte anche ciò che in realtà non c’era mai stato, e spingendo ad accomunare tutto il percepibile in un medesimo stato di rovina. è questo uno dei motivi per cui mai si saprà, al di là di un discorso generale, quanto è andato effettivamente perso, sia nel patrimonio edilizio sia in quello monumentale, che annoverava poche grandi fabbriche, per volumi e importanza storico artistica, a fronte di una moltitudine di edifici fondamentalmente poveri, ma carichi di una storia dignitosa di dialogo continuo con il territorio.

 

Lettopalena, la porta d’ingresso all’antico borgo

Si pensi alle tante chiese rurali intorno alle città, spesso lungo i tratturi, o alle torri isolate sul territorio, un tempo postazioni di difesa e avvistamento, per l’occasione trasformate in ricoveri di fortuna durante la guerra, più tardi in cave di materiale per le case da ricostruire. Stesso discorso vale per le numerosissime contrade rurali, di una regione da sempre ad economia pastorale e contadina, che dopo la guerra vengono segnalate a decine intorno alle città, e di cui oggi si è persa in gran parte traccia, se non nella toponomastica, rivelando un capitolo della storia locale non più indagabile nella sua complessità. Nella provincia dell’Aquila i centri più colpiti sono quelli che hanno fatto da smistamento di uomini, mezzi e materiali per il fronte di Cassino, soprattutto quando coincidenti con siti arroccati, sfruttati dai tedeschi come luoghi di postazione e preferiti come bersagli dall’aviazione alleata. Ad Alfedena, risulta distrutta “tutta la zona del castello, compresa la chiesetta che vi era”, mentre ad Ateleta, lungo la provinciale che unisce Castel di Sangro con Lanciano, si parla subito dopo la guerra di solo otto case abitabili risultando tutte le altre distrutte o gravemente danneggiate, come le due chiese di S. Gioacchino e S. Rocco, e come gli edifici scolastici, il municipio, il mattatoio, i due ponti nel vallone S. Cristoforo, l’acquedotto, la rete fognaria ed elettrica: il tutto a dispetto della giovane età del centro, fondato da Gioacchino Murat e costruito con semplicità ma con “proprietà da maestranze locali ed utilizzando materiali tipici della zona”. Altrettanto grave è la situazione di Civita d’Antino, ai confini col Lazio, e ancor di più quella di Carsoli, già interessata dal terremoto del ’15, dove le azioni belliche del maggio ’44 hanno distrutto oltre le industrie, le scuole e il palazzo comunale, “ tutte le case del ‘400 che si potevano ammirare lungo la via Valeria e la chiesa del Carmine, nel corso Umberto, col portale del 1442, mentre nella piazza Corradino sono caduti il campanile e l’abside di stile romanico della chiesa collegiata, mentre il palazzotto Orsini del ‘300 e le due case del ‘400 che vi prospettavano sono andati distrutti. Di tutte le altre case di epoche posteriori che davano sulla piazza stessa ne è rimasta in piedi una sola”. A Castel di Sangro, dopo la guerra le cifre registrano una città ridotta ad un cumulo di macerie, con 1.200 vani su 3.600 completamente distrutti e la cattedrale di S. Maria tra i pochi edifici rimasti in piedi. Situazione peggiore è quella della vicina Roccaraso dove i censimenti postbellici riferiscono che di circa 250 fabbricati ne sono rimasti in piedi soltanto dieci, “contandosi fra questi una chiesina e una cappella, un gruppetto di stalle, un piccolo albergo e sei casette di abitazione”. Nella provincia di Pescara è innanzitutto il capoluogo, considerato punto strategico fondamentale per la conquista di Roma, a risultare distrutto “nei grandi e bei palazzi … che ne costituivano l’ornamento”. Qui, i dati forniti dopo la guerra parlano di devastazioni ammontanti a circa l’80%, localizzate soprattutto nella zona centrale e nel quartiere marinaro alla sinistra del fiume, e di poco superiori a quelle di Loreto Aprutino, Popoli e Penne. Nel caso di Loreto è un terzo dell’abitato a risultare completamente distrutto, a fronte di un patrimonio edilizio in gran parte pericolante e dunque da demolire, come si reclama per la chiesa di S. Giuseppe in via delle Monache e per quella di S. Pietro in via Baio, il cui cedimento mette a rischio anche le case sul pendio sottostante, fondate, come tutto il paese vecchio, su terreno argilloso che ne rende la statica estremamente precaria. A Popoli i bombardamenti e le demolizioni operate dai tedeschi risultano aver distrutto il ponte stradale sul fiume Aterno, l’ospedale civile, la scuola, la ferrovia e la chiesa di S. Domenico, la locale fornace di laterizi, mulini e pastifici, oltre a 300 alloggi, con altri 500 circa gravemente danneggiati. A sud di Pescara, sulla costa, il primato delle distruzioni tocca a Francavilla, abbattuta per il 98% del suo patrimonio, salvandosi quello restante solo perché, collocato lungo la via Adriatica, viene utilizzato dalle truppe tedesche fino al momento della ritirata. Di essa Flaiano dirà che “non un albero, né una casa sono rimaste in piedi. Il muro più alto arriva al ginocchio e le piogge hanno già dato ai cumuli di calcinacci e di mattoni il colore del terreno di riporto e l’aspetto irrimediabile della catastrofe ‘nazionale’. Il vento non solleva un granello di polvere , tutto sembra già schedato e giudicato (…)” . Di poco inferiore a quella di Francavilla è la percentuale di distruzioni registrata ad Ortona, dove all’atto della liberazione, su un totale di 16.250 vani ne vengono considerati distrutti 4.000, gravemente danneggiati 5.120, lievemente tutti gli altri.

 

Ortona, cattedrale di S. Tommaso, il crollo della cupola

Distrutti o gravemente danneggiati sono anche tutti gli edifici pubblici, il porto, le linee ferroviarie, gli impianti e i fabbricati industriali. Poco più a sud, a Fossacesia, è un intero rione ad essere raso al suolo insieme all’edificio scolastico, a quello comunale, alle due chiese, ai pochi impianti industriali. Stesso scenario è nei vicini centri di S. Maria Imbaro, distrutta per l’80% del suo patrimonio, e Mozzagrogna, dove, su circa 500 abitazioni la metà risulta non più utilizzabile. Se tutta la regione è gravemente provata è infatti la provincia di Chieti quella più disastrata. Qui i dati sono allarmanti, anche riguardo alla condizione igienica della popolazione superstite, costretta in case diroccate, grotte e baracche e ridotta in uno stato di miseria pressoché assoluta. Quando nell’autunno del ’44, a qualche mese dalla fine della guerra, viene costituito il Consorzio dei comuni della provincia di Chieti sinistrati dalla guerra, nell’elenco risultano inclusi quarantaquattro centri, destinati a diventare cinquantadue qualche mese più tardi e arrivare a ottanta qualche anno dopo, praticamente coinvolgendone l’intero territorio nei programmi di ricostruzione finanziati dallo stato. Ad essere maggiormente colpiti, oltre ai centri della costa, sono quelli “interni”, affacciati sui fiumi che ne solcano le valli fino al mare, interessati da distruzioni più o meno sistematiche, ammontanti nelle cronache ufficiali al 100% addirittura. Così è per Montenerodomo, piccolo centro a ridosso della Maiella; così è per la vicina Colledimacine, con un patrimonio edilizio integralmente distrutto a mezzo di mine che, qui come altrove, hanno facilmente avuto ragione di abitazioni in muratura portante di pietra locale, messa in opera con tecniche assai povere in quanto a lavorazione e malta legante, in genere a base di terra; ed anche per Lama dei Peligni, già ampiamente provata dal terremoto del settembre 1933 e poi gravemente distrutta dalla guerra, compresa la seicentesca chiesa di S. Rocco, pure all’epoca rinforzata con l’uso di muratura listata. A Palena, lungo la dorsale che dalla montagna della Maiella degrada verso il fiume Aventino, risulta che “non ci sono edifici rimasti illesi”, considerando che le distruzioni al patrimonio cittadino ammontano all’80% circa, “compresi gli edifici pubblici, il municipio, la chiesa, la scuola, l’acquedotto, le fognature”, in una zona peraltro già pesantemente colpita dal sisma del ‘33. Situazione ancor peggiore è quella della vicina frazione di Lettopalena, le cui distruzioni, aggiunte a quelle, gravissime, dello stesso terremoto del ’33, sono tali da suggerire addirittura lo spostamento totale della città in altro sito. Qui i danni che il Genio Civile denuncia ammontano al 99% delle abitazioni. Dei 410 fabbricati, dove alloggiavano 230 famiglie per un totale di circa 1.200 residenti, 407 risultano distrutti, con la popolazione riversata in parte nei campi profughi, in parte nelle case rurali della zona o in grotte e locali sotterranei. Lungo la valle del Sangro un caso particolarmente grave è quello del centro di Gessopalena, più degli altri distrutto a causa del terreno di natura gessosa che da secoli tende a trascinare l’intero colle verso la “valle franata”. Dettagliati i dati su Lanciano dove su 17.572 vani, 663 risultano totalmente distrutti, 5.173 gravemente danneggiati, 2.758 lievemente danneggiati, con una percentuale del patrimonio edilizio distrutto valutato per il 50% circa. Distrutti sono l’ospedale civico Renzetti, la caserma Duca degli Abruzzi, il molino Barabba, la Ferrovia Sangritana, le scuole, gli edifici pubblici, gli stabilimenti industriali. Ad essere colpito è soprattutto il quartiere di Lancianovecchia, la parte più antica dell’abitato, anche detta “bastioni”, delimitata dalla strada degli Agorai e Tricalle, dalle mura della città fino a porta S. Biagio, dalla via de’ Bastioni e dalla piazza Plebiscito.Il paradosso della guerra in Abruzzo è che sono le bombe a scoprire, per la prima volta in maniera drammatica e inequivocabile, ritardi e povertà endemiche e secolari, di cui fino

 

Ortona

ad allora non si conosceva l’entità, rimasta confinata negli ambiti della letteratura, di stampo prevalentemente romantico e decadente, e tutt’al più riferita a situazioni geograficamente circoscritte per quanto gravi, come quelle interessate dai terremoti. La denuncia, a partire dalla fine dell’Ottocento, dello stato miserevole in cui versa la regione – soprattutto in ordine alla questione igienica e sanitaria – e le istanze di modernità che da allora cominciano scuotere i capoluoghi e le poche città cosiddette maggiori, neanche sfiorano i centri minori, la gran parte della regione, da sempre ad economia agricola e pastorale. Anche l’impianto, nel 1863, della rete ferroviaria, e il prosciugamento del Fucino, ultimato nel 1878, pur consistenti come provvedimenti per la quantità di territorio interessato coinvolgono ben poco il modo rurale, limitandosi a modificare il paesaggio ma non le abitudini e i modi di vita e poco trasformando il contesto di secolare arretratezza e povertà.
Come nella lentezza del miglioramento dei modi di vita l’immobilismo dei centri rurali arriva alle soglie della guerra pressoché totale, anche nell’opera di risanamento ambientale. Se nei centri maggiori qualche opera viene realizzata, sebbene sulla scorta di una concezione urbanistica rudimentale solo attenta al decoro e all’igiene delle zone centrali, da valorizzare e rinnovare anche tramite sventramento dell’antico tessuto, negli altri alcuna provvidenza viene presa per colmare le secolari carenze. La casa abruzzese su cui la guerra infierisce, quella rurale legata al lavoro dei campi e all’allevamento degli animali, è una struttura per secoli impercettibile ai cambiamenti, stretta in quel “cerchio immobile” descritto da Silone in Fontamara, che coinvolge ogni villaggio meridionale “il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori dalle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato degli altri”. Le “casucce” di cui Silone ancora parla nel ’37, descrivendo la città di Pietrasecca, del suo romanzo Pane e vino, sono nella maggior parte dei casi costruzioni assolutamente rudimentali prive non solo dei più elementari servizi igienici ma anche di aria e di luce. Capanne, spesso composte di una sola stanza, oppure pinciaie, presenti soprattutto sulla fascia marittima, fatte di paglia e terra, oppure ancora pagliare, fatte di frasche e pali di legno: tutte quante tipologie segnalate dalle inchieste sanitarie, sin dalla fine dell’Ottocento, anche dette immondi tuguri, “case per bestie più che per uomini”, dove sino agli inizi del nuovo secolo l’indice di affollamento raggiunge talvolta le 4-5 persone.

 

Guardiagrele, le distruzioni nel centro storico. MIT, archivio dei piani

Ancora durante il periodo fascista le cronache denunciano case misere e scadenti dove i contadini “vivono colle famiglie in una dannosa promiscuità di sessi, di regola costituite da uno o due vani di abitazione, da un vano per la stalla, ed un altro per deposito di fieno e prodotti agricoli”; e ciò nonostante la retorica sulla necessità di migliorare la dura vita del contadino, e gli sforzi fatti in questa direzione. A fronte, infatti, dei progetti di bonifica avviati in questo periodo ed estesi a tutta la regione, ben poco si riesce a realizzare oltre qualche circoscritta opera stradale o idraulica, rimanendo l’aspetto fisico della regione quello di sempre, aspro e difficile in montagna e ancora paludoso e malarico nelle valli e nei tratti litoranei. Quando nel 1934 viene eseguita l’indagine Istat, la gravità della condizione abitativa che ne risulta è tale che metà delle case esistenti hanno bisogno di riparazioni, e una gran parte è addirittura da demolire, a causa delle pessime condizioni di conservazione dovute prevalentemente all’uso di materiali e tecniche costruttive scadenti, per carenza di risorse e manodopera. Alle soglie del ventesimo secolo gli unici mutamenti al paesaggio urbano dei centri minori sono portati dalle case degli americani; quelle “bianche e pulite”, segnalate da Benedetto Croce, nella sua monografia su Montenerodomo, costruite fuori dagli antichi circuiti con le rimesse in denaro dell’emigrazione, utilizzate prevalentemente in beni immobili, da sempre considerati forme di riscatto ed emancipazione da secolari oppressioni, e che lo stesso filosofo segnala come le uniche novità di rilievo visto che “alcun progresso notabile, nei sessant’anni di vita unitaria si è attuato nella cultura del territorio, nonostante che la vita pastorale sia cessata del tutto”. Momenti di rottura rispetto all’immobilità del quadro d’insieme si verificano con i due terremoti della Marsica e della Maiella, rispettivamente del ‘15 e del ’33, veri sconquassi della storia abruzzese, ma in un contesto che riguarda soltanto le zone colpite e risparmia le altre, tanto nei danni che nei cambiamenti legati alla ripresa, anche in questo caso minimi e praticati comunque sulla scia della tradizione, soprattutto quando rivolti alla ricomposizione delle vecchie città. Rispetto ad una storia costruttiva tanto lunga e povera come quella abruzzese, la seconda guerra aggiunge una vicenda di disgrazie capace, per la prima volta, di superare ogni barriera e distruggere tutto, anche quanto era già stato ricostruito dopo i terremoti o era in corso di ricostruzione 23. è l’entità della vicenda ad attirare per la prima volta l’attenzione di una cultura altrimenti latitante sulla complessità dei suoi ritardi e delle sue molteplici identità. Se rimane Matera la vergogna nazionale per eccellenza che il dopoguerra porta clamorosamente alla ribalta, l’Abruzzo non sembra esserne lontano. È quanto scoprono le bombe a fare da supporto alle rivendicazioni successive, quasi che i torti subiti, dalla natura ostile ma anche da uno stato assente, possano essere d’improvviso rimossi, trasformando in risorsa il particolarismo da sempre sofferto. La necessità di avviare un nuovo corso è talmente urgente da far passare in secondo piano ogni forma di rimpianto per il perduto, giungendo a considerare la cesura della guerra come occasione imperdibile per lasciarsi alle spalle secoli di povertà e privazioni. Come ha osservato Guido Piovene viaggiando in Abruzzo alla fine degli anni Cinquanta, la guerra, nella regione, “ha rotto un ordine stabilito nella rassegnazione e ha lasciato profonda traccia”, con “gente attaccata al proprio campo e senza altro orizzonte, che si trova d’improvviso stanca di sopportare”, ponendo le premesse di un profondo rinnovamento. è in attesa di questo, che la vicenda della ricostruzione segue in Abruzzo un percorso diverso dalla ricerca del dov’era e com’era, coincidendo essa con la possibilità, finalmente, di liberarsi del passato, giudicato alla resa dei conti più un fardello che un patrimonio da salvaguardare.

© Lucia Serafini tratto da ‘Danni di guerra e danni di pace’

 

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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