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Proviamo a declinare l’Abruzzo

Dire Abruzzo significa per molti dire monti, ma monti speciali, che hanno qualcosa di misterioso, e spesso meno conosciuto di quanto si vorrebbe e si dovrebbe. Montagne nel cuore d’Italia che segnano confini non con altre nazioni, come succede al Nord, ma piuttosto con altri modi di vivere, forse addirittura con altri mondi, dove la natura nasconde preziosi tesori e la tradizione ambienta singolari storie e leggende. Un immaginario potente si lega alle cime di questa regione, un immaginario insieme mitico e concreto, culturale e sociale. Sta di fatto che chi vuole conoscere davvero la montagna italiana nelle le sue più dense e imponenti espressioni appenniniche, nei suoi paesaggi più forti e originali non può fare a meno di addentrarsi tra le terre alte d’Abruzzo.

Il destino degli uomini nella regione che da circa otto secoli viene chiamata Abruzzo è stato deciso principalmente dalle montagne […] Le montagne sono dunque i personaggi più prepotenti della vita abruzzese, e la loro particolare conformazione spiega anche il paradosso maggiore della regione, che consiste in questo: l’Abruzzo situato nell’Italia centrale, appartiene in realtà all’Italia meridionale. […] Chiunque osservi una carta orografica può scoprire come le catene dell’Appennino sono disposte in forma di quinte formano il grande altipiano abruzzese schierandosi in forma di parallele tra loro annodate da potenti massicci fra i più alti della penisola.
Ignazio Silone, 1948

La pianura di Avezzano, l’azzurro chiaro del lago, Alba e il Velino con le sue belle cime, o sotto il sole oppure adombrati da nuvole passeggere; le montagne lontane oltre Sulmona coperte di neve, il passo brullo di Forca Carusa, la rupe scoscesa di Celano: tutte queste cose assieme, in una splendida mattina italiana, erano uno spettacolo da non potersi guardare senza esserne conquistati.
Edward Leard, 1846

I monti formavano un mondo che sembrava avesse più stretti rapporti con le nuvole, col cielo con gli astri, anziché con gli uomini e con gli animali; un regno in alto separato dalla pianura, abitata dagli uomini, solcata da innumerevoli impronte, esausta delle insite coltivazioni, battuta da innumerevoli cammini. […] Lassù sembrava vivere ancora una, ancora indistinta, antichità: sembrava che con la nostra corsa forzassimo l’atmosfera di un’epoca leggendaria. […] La Valle del Sagittario non può dirsi nemmeno una valle; è una gola, una piega strettissima e profonda dentro cui scorre il fiume di questo nome. I monti sono così vicini e così alti da tutti lati, e per tutta la sua lunghezza, che sembrano piuttosto muraglie, l’una addossata all’altra: il cielo vi appare in quella vietata lontananza che prende se guardato dal fondo di un pozzo: forse più reale e prezioso, ma estraneo, non fatto per esser goduto dall’uomo.
Nino Savarese, 1930

Regione di dure rocce ma dall’anima gentile, cordiale ovunque, amabile e rassicurante soprattutto dove i monti sfumano in vallate generose di prodotti dell’uomo e della natura. Terra dalle espressioni artistiche sorprendenti per una particolare raffinatezza dai tratti solidi,che si sposa con una profonda umanità. Parte d’Italia che, sempre con una certa discrezione, si mostra ricca di creazioni dell’ingegno, del lavoro e dell’arte di vivere raccontate in tante belle opere che adornano le città come i più piccoli borghi, in feste antiche, in vini d’eccellenza, in prelibatezze, decise o delicate, che rappresentano fedelmente il carattere e il ‘genius loci’ abruzzese.
Gentile, anche gentile, la selvosa e rocciosa terra d’Abruzzo, che dai suoi fondali rupestri ed arborei sprigiona una musica sommessa di carezzevole malinconia e di sacrale sanità. Questa è l’impressione che si prova in ogni angolo d’Abruzzo. ogni cosa rinnoverà quel senso di forza e di gentilezza insieme commiste, anzi compenetrate, che costituisce la melodia caratteristica di questa terra. Ci visita l’Abruzzo non può sottrarsi al fascino determinante del paesaggio, della natura. […] E quanti anche oggi conoscono la bontà dei vini abruzzesi, il profumo e lo splendore delle uve che coprono i dossi collinosi scendenti su Ortona e su tutto quel tormentato litorale teatino che è l’unico tratto capricciosamente panoramico della costa abruzzese, […]. Chi conosce il fragrante sapore della frutta che ricopre le valli che dalla Pescara al Tronto risalgono dal mare verso il Gran Sasso? E chi parlerà dei confetti di Sulmona, dei salumi di Penne, o dei liquori che a Pescara si distillano o, per uscire dalle tentazioni della gola, dei tappeti delle Valle Peligna e dele infinite lavorazioni in legno e ferro battuto che alla fine del Medioevo trovarono la massima espressione artistica nella persona di Nicola da Guardiagrele? […] Uno dei grandi dolori dei figli più evoluti d’Abruzzo è appunto che la loro terra si propone normalmente all’attenzione per lo splendore dei suoi paesaggi montani e oggi anche per l’attrattiva delle sue interminabili spiagge, e che non sia ancora sorto chi sia capace di tracciare la sagoma precisa di questa terra, ancora misteriosa, in base alle secolare, armonica abbondanza dei suoi monumenti artistici.
Ettore Paratore, 1970

Adesso che mi ci fai pensare, mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese e debbo dire, ahimè, tutto; cioè l’orgoglio di esserlo che mi riviene in gola quando meno me l’aspetto, per esempio quest’estate in Canada, parlando con alcuni abruzzesi della comunità di Montreal, gente straordinaria e fedele al ricordo della loro terra. Un orgoglio che ha le sue relative lacerazioni e ambivalenze di sentimenti verso tutto ciò che è Abruzzo. Questo dovrebbe spiegarti il mio ritardo nel risponderti; e questo ti dice che sono nato a Pescara per caso: c’era nato anche mio padre e mia madre veniva da Cappelle sul Tavo. I nonni paterni e materni anche essi del Teramano, mia madre era fiera del paese di sua madre, Montepagano, che io ho visto una sola volta di sfuggita, in automobile, come facciamo noi, poveri viaggiatori d’oggi […] Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora ‘nu cristiane?), la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come miei, anzi nei loro difetti i miei. Quel senso ospitale che è in noi, un po’ dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola (nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l’Abruzzo, come regione remota: «Gli è più lontano che Abruzzi»); un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella son le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare… Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?), con una sola morale: il lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno. Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue.
Ennio Flaiano, 1972

(sul Corno Grande) Un piccolo piano inclinato offre la sommità della montagna quasi fosse un coverchio, o un gran lastrone ivi sopra imposto uniforme della pietra istessa […]. Non è facile l’ esprimere quel misto di sensazioni che provai al trovarmi per la prima volta sulla cima di una così alta montagna, e come l’orrore dei passati perigli, e l’aspetto delle balze le più alpestri, delle valli voraginose, dei dirupi più spaventevoli, dei grandiosi sfasciumi che da più parti mostra il monte, fosse tutto superiormente compensato dalla veduta, che comprendeva il maggior spazio, che si fosse presentato al mio sguardo […]. Se il tempo fosse stato sereno, avrei goduto del grandioso quadro di vedere i due mari che bagnano l’Italia, e sicuramente le opposte sponde della Dalmazia.
Orazio Delfico, 1794

la valle di Monte Corno, o Gran Sasso d’Italia, dal lato che guarda l’Adriatico. Da quella parte, il Gran Sasso si mostra più magnificamente elevato e superbo. Io non ho mai visto un monte che faccia più pompa della sua statura, e che svegli nell’animo più intensamente il senso di maestà e del sublime.
Fedele Romani, 1907

La catena del Gran Sasso si presenta imponente, come una immensa muraglia dentellata, a levante di Aquila, e su di essa torreggia la dirupata cima di Monte Corno. Dal lato teramano, da cui si eleva quasi a picco il Corno Grande colla sua minore ma non meno dirupata appendice del Corno Piccolo: l’aspetto della montagna è ancora più aspro ed imponente, e tale da giustificare a prima vista la fama di inacessibilità che essa ebbe per il passato. Ora la montagna è riconosciuta non difficilmente accessibile quasi da ogni lato, e viene percorsa ed ascesa di frequente da studiosi ed escursionisti.
Luigi Baldacci e Mario Canavari, 1884

Lassù, sui sentieri erti e faticosi, tra le rocce, tra le vette dei monti del nostro Abruzzo, per sentire, come noi sentiamo, nell’anima tutta la vita e la forza di questa poesia.
Douglas William Freshfield, 1878

E io guardavo se il Gran Sasso avesse le brache o il cappello, se cioè la neve fosse alle falde o sulla cima e indicasse perciò un inverno lungo o corto. Ma s’era di primo autunno, e il Monte Corno aveva un colore bronzeo che la distanza velava d’una lieve tinta violetta. D’altra parte si scorgeva il Sirente proteso come un enorme selce aguzzo sul nero delle boscaglie, coi canaloni biancheggianti, come quelli del Gran Sasso. e laggiù alle nostre spalle tra le lievitanti brume violacee, il massiccio lontano della Maiella, la montagna madre della gente di Abruzzo.
Giovanni Titta Rosa, 1965

Si capisce come la Majella abbia colpito da sempre la fantasia delle sue genti; non ha importanza quello che dice la scienza: chi guarda la Majella non ha difficoltà a credere che possa essere vero quello che gli abruzzesi sostengono e che questa sia stata proprio la prima montagna d’Italia a emergere dal mare in un’antichissima preistoria. Si capisce anche come Plinio l’avesse definita “padre dei monti” e le canzoni dialettali la chiamino “montagna madre”.
Carlo Graffigna, 1976

Su un’area di circa 250 chilometri quadrati è il parco Nazionale d’Abruzzo, nato inizialmente, nel 1862, come riserva di caccia della casa reale per gli orsi e i camosci. Il Parco vero e proprio fu inaugurato nel 1922 e si estende principalmente nella parte destra dell’alta valle del Sangro Il territorio è ricco di boschi di faggio ed anche in brevi zone sopra Villetta Barrea di pini. Nella desolazione delle montagne abruzzesi le Foreste del Parco Nazionale d’Abruzzo sono vere oasi verdi di grande bellezza ove talvolta biancheggiano fra gli alti dirupi le acque delle cascate,. In questa regione si rifugiano gli scarsi rappresentanti di specie animali prossime a estinguersi, la cui conservazione è stata appunto uno degli scopi del Parco: l’orso marsicano, il camoscio, il capriolo.
Mario Fondi, 1965

Quella catena di promontori e di golfi lunati dava l’immagine d’un proseguimento di offerte, poiché ciascun seno recava un tesoro cereale. Le ginestre spandevano per tutta la costa un manto aureo. Da ogni cespo saliva una nube densa di effluvio, come da un turibolo. L’aria respirata deliziava come un sorso d’elisir.
Gabriele d’Annunzio, 1894

E’ anche vero che ci sono terre dalle nostre parti, che la storia non ha stancato, insterilito, logorato, e il litorale è proprio la plaga che D’Annunzio chiamò “terra vergine”. Ecco la mia idea, vera o sbagliata che sia è che l’Abruzzo moderno e le fortune di Pescara siano nate allora, con la generazione di Gabriele D’Annunzio. Tutti erano dannunziani a cavallo del secolo e lo furono per molti anni dopo e D’Annunzio quando non serviva di esempio serviva di alibi. Il poeta aveva messo l’Abruzzo di moda, Dopo la Figlia di Jorio la frenesia dannunziana dilagò.
Gian Gaspare Napolitano, 1965

Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natia rimanga né cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d’avellano. E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! Ora lungh’esso il litoral cammina La greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquio, calpestio, dolci romori. Ah perché non son io cò miei pastori?
Gabriele D’Annunzio, 1903

 

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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