Si tratta di un paesaggio boscato esteso per circa 500 ha situato nel comune di Pescocostanzo (L’Aquila), di proprietà in parte comunale e in parte privata. L’area è posta all’interno del Parco della Majella e ricade all’interno della riserva naturale omonima creata nel 1985. Si raggiunge da Pescocostanzo per la SP 55, 10 km, da Sulmona, via Cansano, per la SS 487 e la SP 55, 21 km; dalla SS 17, bivio per Pescocostanzo, 13 km. Si tratta di un piano carsico (Piano Primo Campo), con alture marginali ed emergenti di matrice calcarea. Il piano che si sviluppa in direzione nord-ovest/sud-est, è racchiuso tra le dorsali del Monte Rotella (2127 m s.l.m.) e Monte Pizzalto (1969 m s.l.m.), con una altitudine compresa fra i 1290 e i 1420 m s.l.m.
La significatività della area risiede nella sua persistenza storica e nella peculiarità delle componenti arboree caratterizzate dai faggi capitozzati, tipici di molti boschi abruzzesi, sebbene poco conosciuti e riconosciuti nelle loro funzioni paesaggistiche. Il bosco di Sant’Antonio fu l’oggetto di una delle prime battaglie per la conservazione del paesaggio della Repubblica italiana. Elena Croce lo ha efficacemente definito «santuario della natura e della civiltà pastorale». Oggi esso rappresenta un esempio molto ben conservato e forse il più significativo, in Abruzzo e nei territori del Regno delle Due Sicilie, dei boschi definiti «difesa». La «difesa» era un territorio proibito ad altri usi perché riservato al pascolo di equini e bovini, ma non agli ovini. Aveva la funzione di meriggio ed è una forma di pascolo alberato. Vi era bandito il diritto di legnare tagliando al piede, mentre era possibile tagliare «a capitozza» per legna da ardere e per frasca. Caratteristiche della «difesa» sono le forme delle piante «a capitozza», risultanti da una potatura del fusto a circa 2 m di altezza dal suolo, per dare luogo allo sviluppo di polloni, in pratica un ceduo aereo adatto alla produzione di foglia per l’alimentazione del bestiame, e protetto dal morso degli animali pascolanti trovandosi a una certa altezza dal terreno. Nel bosco di Sant’Antonio è stato inoltre individuato uno di quei boschi sacri di epoca romana (lucus) o preromana, situato sul valico di un’importante via tra Sulmona, la Valle del Volturno e l’alto Sannio, di cui restano tracce all’interno della parte nord del bosco (via Minucia o Numicia).
L’attuale nome risale a una congregazione religiosa degli antoniani dedita ad attività ospitaliera devota a sant’Antonio Abate, protettore degli animali, e a cui si deve una chiesetta sul margine orientale del bosco. I centri abitati, pur in alta quota, vicini – Pescocostanzo, Rivisondoli, Roccaraso – e le «masserie» presenti sul margine della piana testimoniano l’importanza dei pascoli e delle attività agricole nell’area. Il bosco di Sant’Antonio è particolarmente rilevante quanto a composizione (specie arboree presenti) e dimensione delle piante: faggi, cerri, aceri campestri e altre specie come ciliegi, peri e agrifogli di dimensioni fuori dall’ordinario. Nei millenni furono ampliate le aree di prateria di altitudine per esercitare il pascolo legato alla transumanza, con una intensificazione nel corso del XIX secolo, mentre le aree piane erano destinate a prato-pascolo per bovini ed equini e, non continuativamente, a coltura di cereali. Questo uso del territorio ha consolidato un paesaggio di alto valore scenico fatto di alternanze tra bosco e aree aperte che consente visuali sui più importanti rilievi dell’Appennino. Il paesaggio del piano carsico circondato da pendici coperte da bosco è un frammento ancora ben conservato del complesso degli altipiani dell’Abruzzo interno. L’articolazione in diversi altipiani, limitati da rilievi, contribuisce alla percezione dell’integrità paesistica, che deriva innanzitutto dalla conservazione delle funzioni produttive tradizionali. Molto calzante su questo aspetto la definizione degli altipiani maggiori d’Abruzzo, quali «luoghi di sfruttamento sapiente» (F. Sabatini, 1960). Le masserie testimoniano l’uso più intensivo dell’area pianeggiante.
L’ integrità dell’area appare sostanzialmente mantenuta anche se con variazioni dei rapporti fra le componenti arboree, pascolive e delle caratteristiche dei singoli elementi arborei. Per proteggerlo da utilizzazioni boschive che ne avrebbero snaturato l’assetto, alle quali si oppose la popolazione locale, e su sollecitazione di diversi intellettuali (Gaetano Salvemini scrisse un veemente articolo sul settimanale «Il Mondo»), in data 27 gennaio 1953, sul bosco di Sant’Antonio fu posto il vincolo paesaggistico a norma della legge 1947/1939. Nel 1985 la Regione Abruzzo ne ha fatto una Riserva regionale di 550 ha (legge regionale 66/85); dal 1991 fa parte del Parco nazionale della Majella. L’area è classificata Sito di importanza comunitaria con il n. IT711039 Pizzalto-Bosco di S. Antonio. La diminuita pressione del pascolo ovino viene parzialmente compensata dalla crescente popolazione di ungulati selvatici. Anche se negli ultimi decenni vi è stato un aumento del bosco, questo consiste più in una crescita dimensionale che in una vera espansione in termini di superficie. L’integrità è stata solo in parte alterata da fabbricati usati come residenze estive concentrate su un’area limitata. Relativamente alla parte di pascolo alberato che costituisce il bosco di Sant’Antonio propriamente detto, l’utilizzazione tradizionale a pascolo e le tutele esercitate hanno consentito la conservazione della struttura del bosco che ha mantenuto l’antico carattere di «bosco sacro e domestico».
Tuttavia resta l’urgenza di esaminare l’impatto del turismo nella parte nord del bosco e anche il tipo di gestione previsto dal piano e dal regolamento dell’area protetta. Per quanto riguarda la vulnerabilità, la gestione del bosco, che è compreso in un’area protetta (Parco nazionale della Majella), è attualmente condizionato dal piano e dal regolamento del parco. La carta della zonizzazione del parco indica che le aree di bosco sono comprese in Zona A (Riserva integrale). Proprio questo tipo di tutela, certamente adatto a formazioni forestali poco, o da molto tempo non alterate da interventi, appare non idoneo all’ulteriore conservazione del bosco di Sant’Antonio. Da un’analisi accurata del bosco risulta che nel tempo sta venendo meno quel peculiare carattere di lacunosità, frammentazione della copertura forestale, e in particolare è evidente che con il tempo si sta perdendo la particolare conformazione degli alberi legata alla capitozzatura. La chiusura degli spazi aperti sta favorendo il faggio a scapito delle altre specie che tanto contribuiscono a conferire particolarità e a diversificare il bosco. Pertanto è necessario che questo sia oggetto di una pianificazione di grande dettaglio che tenga conto della imprescindibile necessità di conservare i caratteri identitari di quest’area. Purtroppo il problema riguarda molte aree forestali italiane che stanno perdendo le loro principali valenze paesaggistiche.
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