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Il chiodo fisso. 280 vie di roccia sul Gran Sasso d’Italia

Il Gran Sasso alla luce del tramonto, foto Antonio Palermi

Contemplando il Gran Sasso in un giorno d’estate, esso si mostrerà altissimo sopra gli uomini, tutto chiuso in un giro di pareti, irto di vette come un istrice, arido d’acque come un deserto, spesso incappucciato di nubi come un bandito… insomma non fa una buona impressione. D’inverno però muta del tutto il suo aspetto ammantandosi di candida neve come una sposa; ma a me piuttosto ricorda una vecchia salma avvolta in un sudario… (aguzzando la vista poi si possono notare anche file di escursionisti e sciatori strisciare alacremente sulle sue spoglie). Le cose comunque migliorano nelle stagioni intermedie, quando il monte sembra rinascere alla vita; eccolo allora trascolorarsi di dolci emozioni come una fanciulla e inanellarsi le “chiome” di costellazioni di fiori (… già, però il fatto è che le mezze stagioni non esistono più; così resta quella vecchia babbiona che tutti conosciamo). Tuttavia all’alpinista medio di fiori e foglie e mutamenti climatici in genere non interessa un fico secco. A causa di un primitivo livello culturale lui può confondere l’Effetto Serra con un film di Truffaut e il Buco nell’Ozono con un problema di bilancio. Invece è una vera autorità in materia di roccia, di cui conosce tutti i segreti a forza di esplorarla con le mani e con i piedi. Naturalmente le sue preferenze vanno verso la buona roccia compatta, come quella che meglio garantisce la sua permanenza in vita e anche qualche timido progetto di riproduzione. Così tutti i suoi sforzi si rivolgono a cercarne la massima concentrazione possibile e nelle forme più provocanti. Ebbene, il nostro Gran Sasso possiede, accanto a cumuli di immondi sfasciumi, anche aurei filoni di preziosissimo calcare. È dunque obbedendo al prepotente richiamo che ogni estate frotte di rocciatori viaggiano verso l’Abruzzo.

Il Gran Sasso si presenta
Eccoci un giorno al cospetto del Gran Sasso. Un bel mattino lo vediamo svettare al cielo con il suo enorme palco di corna diseguali: Corno Grande e Corno Piccolo, e poco distante una terza spaventosa protuberanza detta Intermesoli. Trattandosi dunque del monte più cornuto d’Italia, nessuna meraviglia che mostri i tratti tipici di quella sfortunata categoria: un’espressione torva, un carattere iroso e molto suscettibile. Per chi proviene dalla Capitale il Corno Grande è il primo a rivelarsi alla vista e ha un modo tutto suo per presentarsi. Voi dunque state tranquillamente uscendo dal tunnel autostradale, detto appunto “Traforo del Gran Sasso”, quand’ecco che “qualcuno” all’improvviso vi urla “Cu Cù!” alle spalle. Voi allora fate un salto sul sedile e vi girate di scatto a guardare “chi diav…”, e quello fa “BUH!” con voce orribile mentre si spalanca immenso sopra di voi come un maniaco con l’impermeabile. Naturalmente la vostra reazione non si fa attendere… o meglio, non si farebbe attendere se non ne foste impediti da una semiparesi da shock. Dunque non fate “nulla”, mentre l’automobile oscilla paurosamente stridendo sulle gomme e intanto avete una visione d’argomento religioso… … ma vi riprendete quasi subito e provate a studiare la situazione con maggior freddezza.

Origine del Gran Sasso
Lo spettacolo non è dei più rassicuranti. Il Corno Grande, che da quel lato si chiama Paretone, è un putiferio di rocce a precipizio che dimostrano chiaramente che certe volte anche Dio, nel suo piccolo, s’inc… Come altrimenti spiegare lo scatto rabbioso di millecinquecento metri di roccia verticale, a sua volta composta da millecinquecento pareti più brevi, torri, pinnacoli, cengie e frane, che si schiantano tutte insieme sull’autostrada? Davvero quel giorno Dio doveva avere un diavolo per capello. Il motivo è oscuro. Si sa solo che a quell’epoca (milioni di anni fa) il Corno Grande non era il monte piramidale che oggi conosciamo, ma l’esatto contrario: un piatto fondale marino meglio noto come “la Secca delle vongole”. Tutto andò bene per alcune ere: quanto più i continenti s’allontanavano l’uno dall’altro, per il noto fenomeno della Deriva, tanto più il mare e la “Secca” prosperavano. Ma poi un giorno l’Africa invertì la rotta e prese a spingere contro l’Eurasia, così, solo perché d’un tratto Dio aveva cambiato idea (fu infatti allora che qualcuno insinuò potesse trattarsi di una Dea). Tra i due colossi giaceva proprio la secca, che fu presa in mezzo nella morsa dei due continenti e cominciò a emergere dall’acqua, e poi a salire sempre più sul livello del mare mentre assumeva via via nomi diversi: “Spiaggia libera”, “Pan di zucchero”, “Gran baita” e infine “Gran Sasso”.

Le Spalle e l’Intermesoli
Dopo la forte emozione proseguite il viaggio sull’autostrada, ma ora non potete più staccare l’occhio dal Paretone mentre l’altro resta fisso sull’asfalto per non distrarsi dalla guida. È dunque con i lineamenti orrendamente sfigurati che fate prendere uno spavento indelebile al casellante. Poi la strada s’allontana dal Corno maggiore e prende a circumnavigare il Massiccio. Ora penetrate in boschi ombrosi mentre la strada si snoda come un pitone tra i tronchi. Ed ecco che v’appare di nuovo il Gran Sasso, solo che il versante nord non ha nulla a che fare con quello orientale, come certe maschere demoniache che mostrano un’espressione diversa per ogni lato della testa. Ora dunque state guardando il Corno Piccolo: da un lato grosse e rotonde convessità dove la roccia ha lievitato più che altrove; dall’altro un lungo solco netto come per il fendente di un’arma; dall’altro ancora una cresta affilata come una schiena di dinosauro. La prima impressione è dunque di qualcosa di bizzarro e vagamente mostruoso. Che poi viene confermata dalle impressioni successive, una per ogni curva… finché non siete tentati di fare una brusca inversione a U. Ciononostante v’avvicinate sempre più alla meta e finalmente avete la prima buona notizia della giornata: la roccia del Corno Piccolo è di ottima consistenza. Lo capite dalla lunga fila di rocciatori che si avviano ipnoticamente verso le due Spalle (al punto che vi chiedete se non ci vedano piuttosto due grandi tett…!). Così anche voi v’affrettate trotterellando per il sentiero, perché in qualche modo sentite l’oscuro richiamo. Sfilate veloci all’ombra della Parete Nord; lambite lievi le Spalle, ed ecco che lo sguardo vi cade inavvertitamente a Ovest… Avete ancora un moto puerile come per “riportarlo” indietro, ma quello già precipita in un baratro senza fondo, poi rimbalza contro una fierissima muraglia e vi ritorna in faccia come una manganellata. È il Pizzo d’Intermesoli: severa, munitissima montagna le cui pareti sono istoriate di molte vie tra le più dure del Massiccio.

 

Pizzo Intermesoli, foto Movimento Verticale

Le Fiamme di Pietra
Per fortuna il versante Sud dà ristoro a tutte le inquietudini. Vi trovate ad attraversare “le Fiamme di Pietra”, surreale messinscena di guglie, torri, monoliti, che il sole calante del vespero accende di luce rossa come un postribolo. Infatti per la prima volta vi sentite come a casa vostra: la montagna ha dimensioni ridotte, calde, mutevoli, la roccia esibisce compattezze granitiche, opere barocche d’erosione, sicché cominciate ad assumere l’aria supponente del critico d’arte. Mentre sfilate naso all’aria non potete fare a meno di saggiare quella roccia dalla grana perfetta, che secondo molti è il miglior calcare d’Italia dopo l’Altare della Patria. Vi ripromettete dunque di tornarci quanto prima, travestiti da alpinisti. Ma ora dovete proseguire. State risalendo un pendio sparso di macerie culminante in alto con un’ampia insellatura: la Sella dei due Corni. Lì avrete conferma di quanto i due Corni siano dispari e difformi tra loro, rispetto a quelli ben simmetrici di una vacca. Dalla Sella digrada verso Nord il maestoso Vallone delle Cornacchie: con tutta evidenza il letto ancora “caldo” di un recente ghiacciaio. Fino all’ultima glaciazione giaceva allungato in quella posizione tra i due Corni; ne sopravvive ancora l’orrida testa gelata sotto cumuli di ghiaie.

 

Le fiamme di pietra, foto Antonio Palermi

La parete Est
Ad un lato del vallone ritroviamo dunque il Corno Piccolo, che qui si manifesta con la più potente delle sue costruzioni: la celebre parete Est, una sorta di immane diga rocciosa di 350 metri d’altezza per 2000 di larghezza, con incastonato al centro un enorme “opale” alto quasi 180m: il fantastico Monolito. Questo è forse ciò che aveva in mente Platone quando vagheggiava l’Idea di Roccia; ostenta infatti il calcare più perfetto d’Europa, è liscio, duro, compatto come una maiolica, dunque quanto di più igienico per fronteggiare i frequenti attacchi di panico di una cordata (se non ne fosse anche la causa). Di fronte al Monolito, su uno sperone al centro del Vallone, sorge una ridente casina abbellita da una bandiera tricolore. Si tratta del rifugio Franchetti del celebre CAI di Roma. Aprendo una breve parentesi, forse è il caso di dire che esso è gestito nello stesso modo in cui l’India è governata da migliaia d’anni: con il sistema delle caste. Da una parte c’è “il cliente pagante”, dall’altra “il personale addetto”. Tra i due gruppi corre un muro invisibile di disparità e discriminazioni (come il divieto a contrarre matrimoni misti!) che ancor oggi resiste al progresso dei diritti civili. Ad esempio, i servizi per il cliente sono posti all’esterno del rifugio sul ciglio di un pericoloso burrone. Quelli del personale sono situati all’interno, tra la mensa e la stufa. L’acqua per il cliente scende diretta dal ghiacciaio alla temperatura di 0,1 gradi centigradi. Quella per il personale passa per una caldaia, un rubinetto, una doccia… (e poi si dice venga rivenduta al cliente in tazze da tè!). Ne consegue che quando vi scappa la pipì, prima dovete calzare i ramponi; e se volete lavarvi la faccia, poi pregherete che qualcuno vi prenda a ceffoni per riattivarvi la parola (…troverete comunque un personale sempre sollecito ad aiutarvi). Ma l’errore più ingenuo è credere che dopo una giornata di scalate il rifugio rappresenti la fine dei pericoli. Tralasciando la cucina (e la toilette), curiosamente l’incidente più ricorrente è di tipo alpinistico. Al culmine di una notte molto agitata non è raro che precipitiate dal 3º piano del vostro letto a castello svegliando tutti i dormienti con uno schianto legnoso. Tutti tranne uno: ossia l’immancabile russatore, che è la causa prima della terribile insonnia della camerata. Quello com’è ovvio continuerà imperterrito ad “arare” i campi col suo “trattore”, mentre voi sarete duramente impegnati a risalire al vostro giaciglio in stile alpino.

 

La parete est del Corno Piccolo, foto Antonio Palermi

Il Corno Grande
Ma torniamo al Gran Sasso. Dall’altro lato del vallone delle Cornacchie si erge immenso il Corno Grande, il cui Paretone vi aveva fatto prendere quel brutto spavento al mattino. Ora vi disgusta con la sua enorme schiena bitorzoluta. Vi ci incamminate sopra mentre siete colti dal vago timore che possa disfarsi di voi da un momento all’altro. Infatti quel fianco del monte è assai mobile per copiosi ghiaioni ed è facile smottare per molti metri a ritroso a seguito di piccole frane. Ecco infatti che riconoscete quel torsolo di mela che avevate divorato più di un’ora prima e cadete preda dello sconforto. Ma a prezzo di dura fatica riuscirete ad avere ragione anche di quel pendio. Vi trovate ora alla sommità di un pauroso cratere mentre la temperatura cade netta come una tegola da un tetto: quello è l’ultimo domicilio del ghiacciaio più meridionale d’Europa e viene detto il “Calderone”. Forse “Ghiacciaio” è un termine un po’ altisonante per quel che appare come un ghiaione da cui trapela una lingua gelata. Però esiste la dichiarazione giurata di un geologo della Pro Loco. Infine zoppicate per una ultima china finché non guadagnate una cresta slabbrata. A quel punto cominciate a sentirvi davvero un po’ stanchi e vorreste riposare un poco, ma ecco che siete presi a schiaffi da tutti i venti d’occidente riuniti in assemblea. Sotto i violenti colpi d’aria cominciate dunque a lanciare sguardi obliqui verso un nuovo inquietante paesaggio. Al di sotto di voi, verso Sud, il monte frana con infinite balze, gobbe e torrioni, quindi si spalanca una vastissima piana butterata di doline, leggermente convessa “a ventre di coccodrillo”, in cui convergono le deiezioni detritiche di un giro completo di montagne altissime, impudicamente calve, disperatamente aride: è la piana di Campo Imperatore, in tutto e per tutto simile a un pezzo della provincia di Kabul. Ed è allora che, complici la stanchezza e l’aria sottile, potreste cadere preda di strane fantasie… infatti poco dopo siete colti dal buffo timore di mettere il piede su una mina anti-uomo. Così prendete a muovervi incerti lungo la cresta, mentre v’aspettate di saltare da un momento all’altro su un ordigno di fabbricazione russa. Ma ecco che all’improvviso mettete a fuoco la vera minaccia: una fila di Talebani sta salendo a grandi passi verso di voi! Vi si gela il sangue per la paura e attaccate a sgambettare per sfuggire alla decapitazione. Già vi sembra di udire vicinissimi versetti coranici salmodiati in lingua Urdu (trattasi in realtà di dialetto teramano parlato assai stretto), voi però credete d’essere sul punto di subire il martirio per la vera Fede. E questa certezza diventa delirio quando andate a sbattere contro una croce di ferro al culmine di una cima pietrosa. Poco dopo siete circondati dalla turba degli “infedeli” che vi trovano ginocchioni mentre recitate passi dal Deuteronomio. Tuttavia i “Talebani” non sembrano poi così minacciosi: ridono, vi battono pacche sulla schiena e vi offrono pure cibo e bevande. Così lentamente riprendete i sentimenti, finché non ricordate d’essere al culmine della vetta più alta del massimo Corno.

Di Piero Ledda – Edizioni il Lupo – 2012

 

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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