Quadro storico-evolutivo della vitivinicultura teramana

 

Di Ernesto Di Renzo

La pratica della vinificazione nella provincia teramana rappresenta un fenomeno dilunga durata del quale risulta assai problematico datarne gli inizi, sebbene i secolidell’età del ferro ce la presentino già come una realtà pienamente affermata. I repertiarcheologici rinvenuti, infatti, ne sanciscono una presenza sicura nel primo millennio a.C., mentre le documentazioni scritte ne comprovano l’esistenza nel corso dei suoi ultimidue, tre secoli. Tali documenti rinviano ad alcune tra le più autorevoli pagine dellastoriografia classica e sono ricchi di particolari informativi che gettano luce chiara sullaqualità e la tipologia dei vini prodotti. Dalla loro lettura emerge come il teramano (inparticolare) e l’Abruzzo (in generale), pur non segnalandosi per una bontà massima deiloro vini, tuttavia si distingono per le caratteristiche tecniche messe in atto nella coltivazione dei vigneti e per la quantità delle loro produzioni. Celebre, al riguardo è ilpasso di Polibio nel quale si dà conto dell’enorme disponibilità di vino presente interritorio prepuzio; una disponibilità tale da poter essere destinata dal condottieroAnnibale ad un uso diverso da quello strettamente alimentare:

Accampato presso l’Adriatico, in una regione che eccelleva per prodotti di ognitipo, [Annibale] dedicava grande attenzione al recupero delle forze e alla cura degliuomini, e non meno dei cavalli. Poiché [ i Cartaginesi] avevano trascorso l’invernoall’aperto in Gallia, infatti, a causa del freddo e dell’impossibilità di ungersi conolio, nonché della successiva marcia e della fatica, quasi tutti i cavalli e, allo stessomodo, anche gli uomini erano stati colpiti dal cosiddetto scorbuto, o da unamalattia simile. […] Annibale, spostando ogni volta il campo di poco, si trattenevasulla costa adriatica, e facendo lavare lavare i cavalli con vino vecchio, per la granquantità che ce n’era, ne curò lo scorbuto e le altre malattie, e analogamente tra gliuomini guarì i feriti, e gli altri rimise in forze, pronti per le operazioni future.

Dopo la grande stagione vinaria che ha caratterizzato tutta l’epoca della storiaromana, a partire dalla caduta dell’Impero, come del resto avverrà nell’intero il territoriodella penisola, anche nel teramano le attività vitivinicole conoscono una brusca eradicale interruzione: vuoi per il diffondersi di carestie, vuoi per l’insorgere diepidemie, vuoi per i continui saccheggi perpetrati dalle orde barbariche dilaganti al diqua delle Alpi. Successivamente, si deve all’azione dei monaci, e alla valorizzazione inchiave religiosa che il vino ha assunto in ambito liturgico-rituale, se l’allevamento dellavite ha saputo ristabilire una sua lenta ma graduale ripresa. Una ripresa che, a partiredall’anno Mille, dapprima ha avuto come scenario gli spazi angusti dei conventi e delleabbazie, quindi, con il ripristinarsi delle condizioni di sicurezza e con il decisointervento legislatore delle autorità cittadine, quello delle mura urbane e dellecampagne.Sulle sorti dei vini teramani ed abruzzesi nei secoli del Basso Medioevo, delRinascimento, dell’Età dei Lumi e dell’ Ottocento, diverse, seppure non abbondanti,sono le informazioni disponibili che documentano gli stati di evoluzione dellaviticoltura e le caratteristiche qualitative dei suoi prodotti. Opere come quelle di AndreaBacci, Anton Ludovico Antinori, Serafino Razzi, Antonio Falcone, Michele Torcia,unitamente agli statuti municipali, arricchiscono le conoscenze di particolari informativiche se da una parte testimoniano la grande abbondanza delle produzioni enologiche,dall’altra permettono di delineare uno scenario dai tratti sostanzialmente retrogradi ecarichi di ritardi teconologic. Del tutto significativa, in proposito, è la relazione con laquale il Nardi tratteggia le caratteristiche del settore nei territori della provincia:

Noi tutti attendiamo a coltivare le vigne. Elle sono così feraci che in alcuni casirestano invendemmiate per mancanza di vasi che ne rattengono il liquore. Eppureancora non sappiamo fare un buon vino, che compriamo dell’Estero, quando ce nevenga la voglia. Sono infinite le qualità delle nostre uve, si maturano perfettamentee divengono dolcissime; ma ignoranti e indolenti fino alla stupidezza ci è incognitofino il di loro nome vero. Perciò i libri di Agricoltura non possono istruircene;perché dove ci parlano di una qualità di uva, che forne noi avremo fra’ le nostre, edel modo come coltivarla, premerla, conservarla, mischiarla con altre spezie peravere un buon vino, noi non la conosciamo; ne sappiamo adattarvi le regole permancanza delle nozioni de’ nomi. Sarebbe necessario quindi o avere alcun buonAgricoltore di Toscana; o pure andare noi stessi colà aa apprenderle. Ecco il nostrocattivo metodo: appena scorgiamo nelle uve un grado di maturità, le cogliamo allarinfusa, spesso frà le acque e nel cattivo tempo; senza togliere neppure ilfradiciume, le buttiamo in bigonci, ove ammostate colle mani si trasportano in unavaschia. Ivi co’ piedi di un contadino vengono pistate, e il succo, che cade in unrecipiente, è trasportato nella botte, o in un gran Caldano di rame per cuocersi […]la pratica del cuocersi si è dovuto adottare per conservare i vini; dacchè i crudiappena sostengono fino a principi dell’està

Nel quadro di una situazione produttiva così descritta, i cui metodi impropri edapprossimativi si sono protratti fino quasi alla soglia della contemporaneità, non sonotuttavia mancate esperienze di eccellenza enologica come quella tardo-ottocentescarinviante al nome di Giuseppe Devincenzi. Presidente della Società dei ViticoltoriItaliani e Ministro del Regno d’Italia dal 1871 al 1874, Devincenzi fondò una modernaazienda vinicola nel territorio di Cologna introducendo vitigni esteri ed adottandotecniche del “governo ad uso toscano” che gli consentirono addirittura di partecipareall’Esposizione Universale di Bordeaux nel 1882, aggiudicandosi una delle duemedaglie d’argento messo a disposizione per i produttori italiani. Successivamente, ilperiodo compreso tra fine ‘800 e primo quarantennio del XX secolo, vede l’enologiateramana dimenarsi in una situazione di evidente crisi che rispecchia la realtà piùgenerale venutasi a creare sia in Abruzzo che in tutta Italia. Una crisi dovuta ad unconcorrere variegato di ragioni economiche, demografiche, sociali e fortemente acuitadal diffondersi nei vigneti di parassiti letali quali la filossera e la peronospora. Tuttavia,rispetto alle aree più interne della regione, dove la coltivazione della vite ha continuatoa far parte integrante di un’economia di sussistenza di tipo promiscuo, nel territorioteramano – con particolare riguardo alla fascia collinare costiera – la viticoltura è andatoprogressivamente specializzandosi ed i vigneti (specie in alcune aree) hanno finito con ilrappresentare la coltura prevalente. I loro prodotti, come le uve di tipo montonico, oltre che oggetto di vinificazione sono divenuti oggetto di esportazione in Italia settentrionalee in Germania per essere impiegati in usi da tavola. A partire dall’ultimo trentennio dello scorso secolo, poi, con l’entrata a regimedella riforma agraria, con il progressivo passaggio delle produzioni da una dimensionecontadina ad una logica più marcatamente aziendale, con l’innovazione dei metodi divinificazione, con la gestione sempre più oculata degli impianti e la selezionequalitativa delle uve nei vigneti, si è assistito ad una vera e propria rivoluzione copernicana che ha investito con decisione l’intero comparto enologico.

 

 

Quest’ultimo,dopo l’esperienza fallimentare delle Cantine Sociali verificatasi a cavallo degli anni ’60-70, ha assunto i connotati di un’attività dinamica e remunerativa in grado di fare datraino all’intera economia rurale. Un’attività che, dismessi definitivamente i panni delladomesticità contadina più legata alla quantità che alla qualità dei prodotti, ha assunto ilineamenti della imprenditorialità aziendale (competitiva ed aperta alla sperimentazione)costretta a confrontarsi con le regole di un mercato sempre più difficile ed affollato diofferte nazionali ed estere. Un mercato nel quale la viticoltura teramana, seppur traandamenti altalenanti e crisi congiunturali, si è saldamente imposta per la natura deisuoi vini. Questi, a dimostrazione degli sforzi compiuti nel perseguimento di livelliqualitativi d’eccellenza, hanno visto dapprima riconoscersi il marchio DOC, quindi dal1995 quello assai più prestigioso, e unico in Abruzzo, DOCG (in riferimento allasottozona di produzione “Colline Teramane”).Oggi, sebbene l’area di estensione della viticoltura riguardi soltanto una porzionelimitata di territorio, la pratica della vinificazione rappresenta una delle attivitàeconomiche maggiormente remunerative della provincia; rappresenta, inoltre, assiemeall’universo gastronomico e all’artigianato artistico, una delle componenti culturali piùautentiche e caratterizzanti su cui si costruisce e si plasma l’identità dei suoi abitanti.Complessivamente, a contrassegnare la struttura produttiva del compartovitivinicolo agiscono fondamentalmente tre differenti componenti, di ineguale valoreredditivo-economico e di difforme profilo motivazionale. Per una comodità espositivache non ambisce certo ad esaurire la complessità del quadro esistente, esse possonoessere sintetizzate nella seguente tipologia: la realtà delle aziende specializzate, la realtàdei coltivatori promiscui e la realtà dei cosiddetti “vinificatori” per passione.Alla prima appartengono le numerose imprese vitivinicole, dinamiche especializzate, la cui nascita (in buona parte dei casi) rimanda al dissolvimento del sistema agrario di tipo mezzadrile e alla citata crisi economica delle cantine sociali.

 

Foto tratta da Colline Teramane

Molti degli attuali produttori, orfani di “padroni” latifondisti o essi stessi ex proprietaridi latifondo, abbandonando la coltivazione promiscua e indirizzandosi verso quellaesclusivamente viticola, hanno dato origine (nel corso degli anni ’70-’80) a moderneaziende in grado di gestire in proprio l’intero ciclo lavorativo che dalla coltivazionedelle uve conduce fino al loro trattamento e commercializzazione. Queste aziende,soprattutto a livello di penultime ed ultime generazioni di proprietari, oltre a rincorrereuna migliore qualità delle produzioni (grazie all’adozione dei più recenti avanzamenti incampo enologico, ampelografico e tecnologico) cercano di aprirsi sempre più alle regoledel business e del marketing, non mancando di partecipare con assidua frequenza allepiù importanti rassegne nazionali ed internazionali che si svolgono nel settore (come ilVinitaly a Verona, o il Salone del Gusto a Torino). Il loro processo di crescita, che adetta degli esperti non sembra tuttavia procedere con le dovute velocità imposte dalmercato, trova quale sponda istituzionale alcuni importanti organismi operanti in diversidistretti di competenza: politico-legislativi, tecnico-amministrativi, economico-gestionali. Tra essi si possono segnalare: l’ARSSA, l’Unione delle Camere di Commercio della Provincia, il Consorzio di Tutela dei Vini d’Abruzzo e, per quantoriguarda gli aspetti più propriamente culturali-promozionali, il Movimento del VinoAbruzzo e l’associazione Città del Vino di cui si parlerà più avanti nel dettaglio.Alla seconda realtà appartengono le numerosissime aziende agricole a conduzioneprivata (ditte individuali) che praticano la viticoltura in maniera accessoria nel quadro diuna attività agraria di tipo promiscuo. Si tratta di coltivatori diretti, proprietari di proprifondi, che alla cerealicoltura, frutticoltura, olivicoltura, associano l’allevamento diqualche ettaro di vite i cui prodotti maturi vengono destinati alla vendita nelle aziendevitivinicole (o alle cantine sociali) e, in subordine, alla vinificazione in proprio persopperire alle necessità di consumo domestico. Diversamente dalle logiche di gestione aziendale, questi contadini molto spesso stentano a perseguire un criterio di qualità delleuve, rincorrendo delle rese (rapporto tra quantità di vendemmiato per ettaro di vignetocoltivato) eccessive che mal si coniugano con un discorso di qualità dei vini. Alla terza realtà produttiva, il cui impatto economico sul sistema vitivinicoloterritoriale è da ritenersi praticamente nullo, appartiene invece quella categoriaeterogenea di soggetti che, pur svolgendo attività in tutt’altro settore lavorativo-professionale, si dedicano alla vinificazione per puro diletto, per ossequio ad una anticatradizione di famiglia, oppure per adesione alle mode culturali del tempo. Quest’ultimoaspetto del fenomeno, secondo le riflessioni proposte da Piercarlo Grimaldi, sembratrovare pertinenti livelli di spiegazione nelle tendenze neo-folkloriche di recenteaffermazione che vedono nella mondo della ruralità il centro irradiatore di valoriautentici e autorealizzativi:

Lo stesso lavoro contadino è oggi, almeno in parte, considerato una risorsa affettivapiuttosto che economica, una buona scusa per sudare ed espellere le “tossine fisichee culturali” accumulate nell’esplorazione quotidiana della società complessa, unasorta di “jogging campestre”, che ha un costo come la palestra, lo sport e le tanteattività che occupano e riempiono l’indifferenziato tempo libero. Produrre con leproprie mani alimenti naturali che danno vita ai sapori del passato dacondividere ritualmente con la famiglia e con gli amici, significa in fondo recuperare quei ritmicostitutivi che fondano il tempo delle campagne fortemente connesso alla natura, almito dell’eterno ritorno, al sacro.

Di Ernesto Di Renzo

 

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Classe 1956, perito elettronico industriale, ho conseguito attestati riconosciuti per attività su reti cablate LAN presso la IBM Italia. Ho svolto la mia attività lavorativa c/o Roma Capitale sino al 2020. Autore, nel 2014, del sito Abruzzo Vivo.

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