11 letture     Tempo lettura: 23 Minuti

La via degli abruzzi e le arti nel Medioevo

VINNI LUCHERINI – L’ARTE DEL MEDIOEVO ABRUZZESE TRA OTTOCENTO E NOVECENTO: UNA SCOPERTA STRANIERA,  UNA RISCOPERTA LOCALE

Questo volume prende le mosse dal convegno “Tra Napoli e Firenze. Percorsi storico-artistici lungo l’Appennino centrale abruzzese (secc. XII-XV)”, svoltosi all’Aquila e a Castelvecchio Subequo l’11 e il 12 Maggio 2012, nell’ambito delle giornate di studio dal titolo “La via degli Abruzzi e le arti nel Medioevo”, promosse dal Dipartimento di Storia e Metodologie Comparate dell’Università degli Studi dell’Aquila e introdotte dalla conferenze di Ferdinando Bologna e di Francesco Sabatini, il quale per primo ha delineato la storia di uno dei “grandi itenerari commerciali, diplomatici, culturali e militari dell’Italia trecentesca”. Dei continui traffici attraverso l’Appennino abruzzese gli studi qui riuniti esplorano la ricaduta sul piano della circolazione dei maestri, delle opere, dei repertori formali e iconografici con particolare riferimento all’età angioina, fornendo al contempo stimoli per ulteriori indirizzi di ricerca.

 

Heinrich Schulz-Beuthen

Il Medioevo meridionale visto con occhi tedeschi
La storiografia sull’arte del Medioevo in Abruzzo si apre nell’autunno del 1833, nel momento in cui un giovane gentiluomo sassone, Heinrich Wilhelm Schulz (1808-1855), si recava nelle province più settentrionali del Regno delle due Sicilie, raggiungendo le montagne su cui alta sorgeva L’Aquila, affascinato non solo o non tanto da un paesaggio appenninico di grande suggestione, allora come ora, quanto dalla ricchezza delle testimonianze artistiche medievali in cui via via si imbatteva durante il percorso. Soltanto due anni prima, incoraggiato dall’allora già celebre Carl von Rumohr, Schulz aveva infatti preso la decisione di dedicarsi a un’indagine sull’arte medievale dell’Italia meridionale alla quale consacrare una grande pubblicazione. Avviato dunque il progetto, non senza un consapevole intento di contrapposizione ad alcuni degli studi apparsi fino a quel momento sulla produzione artistica del Regno (soprattutto le vite degli artisti scritte dall’erudito settecentesco Bernardo De Dominici su modello delle Vite di Vasari); dopo aver perlustrato in lungo e in largo l’intero Sud della Penisola, Sicilia compresa; e dopo aver fatto eseguire dal pittore Anton Hallmann i rilievi di monumenti meridionali fino ad allora sconosciuti a chi non li avesse visti di persona; finalmente nel settembre del 1838, dopo cinque anni dal suo primo viaggio, Schulz si volgeva nuovamente verso gli Abruzzi, accompagnato questa volta dall’architetto Saverio Cavallari, che aveva conosciuto in Sicilia fin dal 1836. In quell’occasione, partiti da Tivoli, Schulz e Cavallari raggiunsero dapprima Carsoli, e poi, attraverso Tagliacozzo e Scurcola, si recarono ad Alba Fucense, e da qui a Sulmona. Dopo una deviazione in direzione di San Vincenzo al Volturno e Santa Maria delle Grotte, tornarono indietro verso Sulmona, dove visitarono la Cattedrale di San Pelino, innalzata sulle rovine dell’antica Corfinium, della quale trassero rilievi soprattutto dell’architettura e dell’arredo liturgico. Secondo quanto auspicato già da tempo, la ricognizione in Abruzzo fu intensa e fruttuosa per Schulz e il suo compagno di viaggio: dal «Kunstcentrum» di San Clemente a Casauria a San Giovanni in Venere, dalle chiese di Pianella e Moscufo a Santa Maria di Collemaggio, nulla che fosse ritenuto suscettibile di attenzione fu trascurato dai due studiosi, ed entrambi realizzarono accurati disegni di ciò che visitarono in quella circostanza, dai quali in séguito furono tratti i rami da destinare alla stampa. Di lì a breve, dopo un altrettanto agognato soggiorno napoletano, trascorso interamente negli archivi alla ricerca di documenti che facessero luce sulla produzione artistica medievale dell’antico Regnum Siciliæ, Schulz fece ritorno in patria per assumere alti incarichi amministrativi che assorbirono le sue energie finché non fu sorpreso dalla morte. Il suo lavoro sull’arte dell’Italia meridionale, rimasto incompiuto, fu poi pubblicato postumo, con il titolo Denkmaeler der Kunst des Mittelalters in Unteritalien, a cura di Ferdinand von Quast di Redensleben, un illustre aristocratico che fin dal 1842 era divenuto il responsabile dell’inventariazione delle opere d’arte prussiane. Trovatosi a far fronte al non facile incarico di pubblicare il contenuto dei taccuini di Schulz, von Quast decise di suddividere il testo in tre volumi: il primo, dedicato ai monumenti della Terra di Bari, della Capitanata, della Terra d’Otranto e della Basilicata; il secondo, ai monumenti di Abruzzo, Molise, Terra di Lavoro, Principato e Calabria; il terzo alla città di Napoli. Nell’Atlante, destinato a contenere una selezione di incisioni in grande formato degli innumerevoli disegni che Schulz aveva fatto eseguire, una parte piuttosto esigua dei molti rilievi abruzzesi di cui lo stesso Schulz ci dà testimonianza nella prefazione che aveva fatto in tempo a scrivere nel 1847, fu pubblicata nelle tavole dalla LIII alla LXIII, dove appaiono soprattutto architetture, in alzato e in pianta, e arredi scultorei.

Sebbene Herr von Quast avesse illustrato i criteri usati nel pubblicare il materiale lasciato manoscritto dallo studioso scomparso, non è sempre agevole capire le ragioni di alcune delle scelte da lui compiute. Per esempio, nel secondo volume compaiono degli accenni a Santa Maria ad Cryptas a Fossa, ma non vi è neanche un rigo su Bominaco,4 e questo discorso vale per molti altri casi. A prescindere, comunque, da quelle che oggi a noi appaiono come lacune della pubblicazione, il metodo con cui Schulz si avvicinò ai monumenti medievali dell’Italia meridionale e dell’Abruzzo (le ricognizioni e le descrizioni de visu; la ricerca di documenti d’archivio che suffragassero le ipotesi dello storico; la necessità di rilievi grafici precisi), ben diverso da quello di un viaggiatore sia pure colto e curioso,5 lo rese non solo un pioniere della nascente storia dell’arte come disciplina autonoma, ma più di tutto un pioniere nello studio delle opere d’arte meridionali.

Biblioteca Comunale di Giulianova

L’arte medievale abruzzese attraverso lo sguardo degli eruditi locali
Negli anni in cui Schulz attraversava il Sud della Penisola, e mentre le sue osservazioni e i suoi disegni rimanevano del tutto inediti, l’attenzione degli eruditi abruzzesi per il proprio patrimonio artistico cominciava a farsi strada, sia pure a partire da diverse finalità. Nel 1829, ad esempio, si stampava a Napoli un’operetta encomiastica dal titolo Sant’Angelo d’Ocre descritto e illustrato, nella quale Giovan Battista Micheletti, accademico dell’aquilana Colonia Aternina, si compiaceva di illustrare il monastero di Ocre a uno dei suoi figli più illustri, «Sua Eminenza Don Francesco Saverio Gualtieri da Ocre, già vescovo di Aquila, ora vescovo di Caserta, regio consigliere del re Francesco I». La descrizione del sito di Ocre, alla quale si accompagnava una digressione sulla chiesa di Santa Maria ad Cryptas a Fossa, sulle sue pitture murali e sul Giudizio finale dipinto in controfacciata, non aveva però alcuna pretesa storico artistica: proprio come nei resoconti di tanti viaggiatori stranieri, ma in questo caso con la variante, e non di poco conto, della strenua volontà dell’autore di decantare i vantaggi dei luoghi natii, Micheletti, dopo aver descritto le pitture, riservava ampie e liriche pagine ai formaggi freschi di Fossa, ai muggiti amorosi che risuonavano nelle stalle, alle lepri e alle volpi e agli storni e alle pernici che nel paese si trovavano abbondanti, o ai funghi, ugualmente saporiti, e soprattutto «sicuri, perché nascono tutti alle radici de’ pioppi». Bisognerà in effetti attendere il 1848 perché Angelo Leosini, funzionario del Regno e membro della Commissione per la conservazione dei monumenti artistici dell’Aquila, pubblicasse uno dei primi lavori specificamente dedicati alle opere d’arte abruzzesi. Si tratta di un caso perfetto per comprendere lo stato degli studi in questi anni e in questi territori: Leosini dichiarava di voler trattare un tema di storia patria prendendo come punto di partenza la storia dei singoli monumenti locali, ma è significativo della modernità del suo approccio che per datare un’architettura facente uso di archi ogivali, quella della più sopra ricordata Santa Maria ad Cryptas, lo studioso si servisse, già a quella data, dell’autorità e degli insegnamenti dell’abbé Jean-Jacques Bourassé, il cui manuale di archeologia cristiana era stato edito a Tours soltanto pochi anni prima, nel 1841. Ci troviamo evidentemente di fronte a un’attenzione precoce alle pubblicazioni specialistiche che in Francia, fin dagli anni venti dell’Ottocento, avevano prodotto importanti risultati nello studio dell’architettura medievale, un’attenzione inedita in Italia meridionale anche nei decenni successivi, quando, soprattutto nella città di Napoli, già capitale del Regno, saranno soprattutto gli archivisti a tenere il campo nell’illustrazione dei monumenti medievali, senza punta considerazione per gli sviluppi che lo studio dell’arte medievale aveva altrove conseguito. Nel frattempo, a Unità d’Italia faticosamente raggiunta, e cancellato ormai per sempre dalla geografia politica del Mediterraneo il Regno delle due Sicilie, nel 1862 Camillo Minieri Riccio pubblicava la Biblioteca storico-topografica degli Abruzzi, la prima bibliografia riguardante la sola regione abruzzese (ispirata alla Biblioteca storico e topografica del Regno di Napoli di Lorenzo Giustiniani edita a Napoli nel 1793), un testo che è da considerarsi come l’opera che diede l’avvio alla bibliografia meridionale. La Biblioteca storico-topografica nasceva dalle passioni personali di Minieri Riccio, ed era basata quasi esclusivamente sui libri in suo possesso (1299 a stampa e 633 manoscritti). Ciò nonostante, si trattava di un’operazione che funse da stimolo a una sorta di competizione regionale, tanto che fu ampliata con tre supplementi: il primo, nel 1876, a opera di Adolfo Parascandolo (con l’aggiunta di 654 titoli pure tratti dalla propria collezione); un secondo, nel 1884, curato da Vincenzo Bindi che modificò il titolo in Fonti della Storia Abruzzese (e accrebbe l’opera di 323 voci); un terzo, infine, nel 1891, intitolato Biblioteca storica degli Abruzzi, redatto dallo storico sulmonese Giovanni Pansa, che ai libri a stampa aggiunse, per ogni località elencata, un’appendice di manoscritti. Con queste pubblicazioni si era ancora lontani da una bibliografia artistica dell’Abruzzo, eppure l’attenzione degli studiosi per la storia della regione filtrata attraverso la compilazione delle bibliografie storiche costituì il segnale di una partecipazione consapevole al più generale movimento di riscoperta delle patrie memorie a cui l’Italia unita assisté in questa seconda metà dell’Ottocento. Vincenzo Bindi, che fu appunto il curatore del secondo supplemento alla bibliografia di Minieri Riccio, si dedicò da parte sua attivamente alla riscoperta e alla divulgazione del patrimonio artistico dell’Abruzzo, raccogliendo materiali (fu collezionista di opere d’arte, soprattutto quadri di artisti originari dell’Abruzzo), e pubblicando testi che ancora si pongono come fonti imprescindibili di notizie sui monumenti abruzzesi. Tra gli scritti di Bindi va ricordato innanzitutto il breve La coltura artistica delle Provincie Meridionali d’Italia dal IV al XVIII secolo, nato sulla scia dell’Esposizione Nazionale di Napoli del 1877, con lo scopo di «rendere una giusta e ben meritata testimonianza di lode e di gratitudine a quei generosi, che con animo nobilissimo, rivendicarono alle provincie del Mezzogiorno la gloria di aver coltivata l’arte durante il Medio-evo». In questo caso assistiamo a quel particolare fenomeno culturale che, in relazione allo sviluppo post-unitario degli studi regionalistici, è stato a ragione definito come «una sorta di ammirazione a senso obbligato», ma il volumetto di Bindi nasceva anche dalla volontà di mettere le opere d’arte a confronto con i documenti d’archivio medievali che vi potessero fare riferimento. Tale proposito fu perseguito da Bindi anche nelle più ponderose pubblicazioni successive, tra le quali, oltre ad Artisti abruzzesi (edita a Napoli nel 1883), va posto l’accento sulla poderosissima (quasi mille pagine in 4°) Monumenti storici ed artistici degli Abruzzi , la prima pubblicazione consacrata unicamente alle opere d’arte della regione, nella quale di ogni edificio o monumento, quasi nessuno escluso, Bindi illustrò la storia, l’architettura, la decorazione scultorea e quella pittorica, trascrivendo tutte le epigrafi e le iscrizioni che gli riuscisse di rintracciare; pubblicando i documenti d’archivio relativi a ciascun sito, laddove esistenti o noti; e analizzando i principali codici manoscritti nei quali si potessero trovare notizie sulle opere e sui monumenti . L’analisi condotta da Bindi su quanto le opinioni di Vasari avessero inciso, in Italia, sulla mancata attenzione alla produzione artistica non toscana, e nello stesso tempo la giusta critica alle falsificazioni di Bernardo De Dominici, ma anche l’individuazione, nei documenti d’archivio, degli artisti che avevano lavorato nel Regno di Napoli (si pensi soltanto all’attenzione prestata alla figura di Pietro Cavallini), rendono le pagine all’inizio del capitolo XVI di questo volume un esempio molto interessante di storia della critica d’arte dell’Italia meridionale. Inoltre, seppure non di rado si incontrino sviste o errori 18, Bindi, proprio nel considerare le opere, i monumenti e gli artisti che nel corso del Medioevo avevano lavorato in Abruzzo come parte della produzione artistica dell’antico Regno di Napoli, allargava di molto l’orizzonte che si era prefisso e rompeva i confini regionali da cui le sue ricerche avevano preso l’avvio: i tempi erano ormai maturi perché l’Abruzzo si inserisse a pieno titolo nel dibattito storico-artistico italiano ed europeo.

Esperienze di valorizzazione e salvaguardia del patrimonio medievale abruzzese
Negli stessi anni in cui Bindi pubblicava i suoi scritti, un ruolo di primo piano nella valorizzazione del patrimonio artistico dell’Abruzzo, oltre che nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica locale e nazionale sui problemi di conservazione di cui quel patrimonio soffriva, fu svolto da una serie di riviste erudite di carattere storico o letterario o storico-artistico, che aggregarono intorno a sé le migliori energie intellettuali del territorio. Nel gennaio del 1889 si pubblicava, all’Aquila, il primo numero del «Bollettino della Società di Storia Patria “Anton Ludovico Antinori” negli Abruzzi», con l’obiettivo di pubblicare i numerosi documenti rari o inediti che «preda a’ topi ed alle tignole, giacciono sotto la negletta polvere de’ nostri pubblici e privati archivii». In quel momento, la regione contava almeno due periodici di carattere erudito: la «Rivista Abruzzese» (fondata a Teramo nel 1886), che lasciava ai suoi redattori un margine di libertà nella scelta degli argomenti lontano dallo scrupolo documentario del «Bollettino»; e la «Palestra Aternina» (1883-1892), pubblicata all’Aquila a cura dell’Accademia di San Tommaso d’Aquino, di impronta sostanzialmente religiosa. Con finalità ben diverse nacque invece nel 1897 la «Rassegna Abruzzese di Storia ed Arte». Creata per volontà di Giovanni Pansa e Pietro Piccirilli, protagonisti d’eccellenza di questa stagione di studi che da soli meriterebbero speciale attenzione, la «Rassegna» fu pubblicata per soli quattro anni, ma segnò una vera svolta negli studi storico-artistici regionali. Il primo numero uscì a Sulmona il 15 aprile del 1897 e annoverò articoli di autorevoli studiosi abruzzesi quali Giuseppe Celidonio e Antonio De Nino.
Nonostante mancasse di un’introduzione programmatica, la rivista rivelò già nel titolo i suoi principali intenti, differenziandosi di molto dal «Bollettino», sul quale fu in origine sostanzialmente modellata, proprio per lo spazio accordato alla descrizione, alla storia e alla tutela dei monumenti locali. Di Pansa, studioso poliedrico dai molteplici interessi, la biblioteca personale testimonia l’ampiezza dei suoi interessi.23 Quanto a Piccirilli, al quale si deve tra l’altro la prima vera e puntuale descrizione delle pitture di Santa Maria ad Cryptas a Fossa e di San Pellegrino a Bominaco, dall’affettuoso ritratto tracciato alla sua morte da Federico Hermanin si delineano bene le molteplici attività a favore della tutela e della promozione del patrimonio artistico abruzzese (il ricordo dello studioso è seguito da un elenco bibliografico di circa 50 voci). Alcune osservazioni di Piccirilli sulla chiesa madre del convento benedettino di Bominaco, esposte nel 1899 nella rubrica L’Abruzzo monumentale, dimostrano, ad esempio, quanto lo studioso fosse attento ai problemi di tutela dei monumenti: Ed i restauri ?

Una vera miseria! Si è rifatto solamente il tetto, senza punto tener conto dell’indecente pavimento, delle basi delle colonne mutilate, delle volte a crociera mal ridotte, e di tante e tante altre cose. Veramente geniale, poi, è stata la trovata di rialzare di parecchi centimetri i muri della navata mediana per l’adattamento delle incavallature, alterando così la linea del frontone della facciata e le proporzioni della cornice ad archetti dei fianchi. Non era possibile una più logica soluzione? Nel 1912 vedeva la luce, per volontà di Vincenzo Balzano, la «Rassegna d’Arte degli Abruzzi e del Molise», che accolse importanti interventi sullo stato del patrimonio artistico e architettonico regionale. Nel marzo del 1913 pubblicava una lunga lettera di Ignazio Carlo Gavini, lo studioso che nel giugno del 1912 aveva già presentato, sulla stessa rivista, un elenco di monumenti da salvare dalla rovina incombente, deprecando la situazione in cui si trovava tutto il patrimonio della regione: «Dovremo noi assistere indifferenti», scriveva in quella occasione, «a questo fato inesorabile che sembra pesare su una delle regioni d’Italia fra le più ricche di opere d’arte? Potremo nulla noi contro difficoltà di ogni genere che si oppongono alla conservazione del nostro patrimonio artistico?». Gavini indicava tre cause principali di rovina dei monumenti: innanzitutto i restauri, che avevano indotto le popolazioni locali a rimodernare esterni e interni di case, chiese, palazzi, livellando le differenze di stile; in secondo luogo, l’imperversare degli antiquari venuti a cercare opere d’arte trasportabili; e infine, un terzo male, costituito da un’usanza dei bambini, la sassaiuola, consistente nel lanciare una pietra in direzione di una cornice o di una sporgenza di un edificio, di preferenza le cimase delle porte o gli architravi più aggettanti. Alla fine del gioco, del bersaglio non rimaneva che polvere, anzi, ironizzava Gavini, «con tale sistema, il distacco degli affreschi riesce in modo veramente sicuro e non c’è l’incomodo del trasporto in un museo!». Quel che oggi fa quasi sorridere, vista anche la precisione tecnica con cui Gavini narra il procedimento della sassaiuola (quasi che da bambino avesse preso parte a questo pericoloso gioco, o quanto meno l’avesse osservato con attenzione), doveva essere un problema ben grave per lo stato dei monumenti medievali abruzzesi, nonostante non fossero mancate importanti iniziative di tutela a livello locale. Quando riflettiamo sulla storiografia dell’arte medievale abruzzese, ci accorgiamo in verità che la riscoperta ottocentesca e primo novecentesca di quel patrimonio non aveva nulla da invidiare a ciò che negli stessi anni avveniva in altre regioni dell’Italia ormai unita. D’altronde sarebbe improprio pretendere che si sviluppasse in Abruzzo un’autocoscienza regionale dal punto di vista storico-artistico ancor prima che in Italia si fosse sviluppata una vera e propria storia dell’arte intesa come disciplina autonoma, con un proprio statuto epistemologico. Perché stigmatizzare, come talora si è fatto, il ritardo nella riscoperta dell’arte medievale abruzzese, se la prima cattedra di storia dell’arte nacque nella Penisola soltanto nel 1896? Non sembra peraltro che l’Abruzzo facesse eccezione a quanto era avvenuto in relazione all’intero Meridione: non dobbiamo dimenticare, infatti, che quando parliamo di Abruzzo, parliamo appunto di Regnum Siciliæ prima e di Regno delle due Sicilie poi, a voler tacere naturalmente delle fasi che si pongono tra queste due potenti entità statali. E nell’Ottocento, la scoperta e lo studio della pittura medievale abruzzese procedettero in effetti di pari passo, dal punto di vista storiografico, con lo studio dell’arte dell’antico Regno di Sicilia, di cui l’Abruzzo aveva fatto parte integrante quale confine settentrionale. Si trattava di uno studio che forse aveva qualche ritardo rispetto a quanto si era fatto in Francia o in Germania o in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento, ma che non era né provinciale in sé, né ritardatario rispetto al resto dell’Italia unita. Eppure, quasi paradossalmente, all’ampiezza di orizzonti che aveva caratterizzato la storiografia abruzzese tardo-ottocentesca e primo-novecentesca, fece seguito, proprio a partire dal primo Novecento, una tendenza storiografica, non locale ma di impronta nazionale ed europea, che si indirizzò, potremmo dire, quasi in senso contrario.

Émile Bertaux (1869 – 1917), storico dell’arte francese

Émile Bertaux e i pregiudizi storiografici del Novecento
Nel 1903 lo studioso francese Émile Bertaux aveva pubblicato la sua celebre e monumentale Art dans l’Italie méridionale. Nella distribuzione della materia oggetto del suo studio, Bertaux aveva posto l’Abruzzo, insieme con il Molise, tra i «pays de montagne», situando la pittura medievale abruzzese, anche quella tardo-duecentesca, lungo una scia che trovava il suo punto di partenza nella Montecassino dell’abate Desiderio, tanto che il capitolo nel quale si analizzano le pitture eseguite in Abruzzo dall’XI al XIII secolo ha per titolo L’influence de l’école du Mont-Cassin. Profondamente convinto che l’Abruzzo si ponesse come una sorta di provincia culturale e artistica della Terra Sancti Benedicti, la cui collocazione geografica montana non poteva non aver pesato sulla sua produzione artistica, Bertaux si era però trovato di fronte alla necessità di giustificare la presenza, sullo stesso territorio abruzzese, di opere i cui caratteri non sembravano avere nulla in comune con l’arte benedettina. E fu così che tutto quel che lo studioso non era riuscito a inserire nel contenitore benedettino andò a finire di diritto in un altro contenitore, quello del transalpino, del francese, dello straniero, e le presunte deviazioni dalla norma cassinese non potevano dunque che essere attribuite ad artisti girovaghi che avrebbero portato con sé le novità d’Oltralpe. In questo quadro così delineato, l’Abruzzo si veniva configurando come una sorta di terra di frontiera, o se si preferisce come una terra di conquista, e nella parte più originale della produzione figurativa di questo territorio si riconosceva il frutto di un fenomeno d’importazione. Le opinioni di Bertaux, che si originavano nel preciso contesto culturale francese nel quale lo studioso concepì la sua opera, hanno esercitato nel corso del Novecento un influsso molto importante sulla storiografia dell’Abruzzo medievale, soprattutto in relazione alla pittura,33 anche quando si è rifiutata radicalmente l’ipotesi dell’esistenza di un’arte benedettina. Isolata però la proposta di Bertaux dal contesto in cui si era formata, e una volta applicata questa idea all’arte del Medioevo abruzzese quasi come se fosse una certezza acquisita, la convinzione che tutto quel che non si riuscisse a spiegare come prodotto locale fosse stato dipinto da un artista straniero transalpino si è man mano fatta strada nella storia dell’arte dell’Abruzzo. Ma accanto a questo canone interpretativo se ne è fatto strada anche un altro, contrapposto, vale a dire quell’insieme di concetti di arte campagnola, montuosa, popolare, popolaresca o periferica che, malgrado le rilevanti variabili insite in ognuno di questi aggettivi, si insinuerà quasi capillarmente nella storiografia novecentesca sulla pittura, e non solo, dell’Abruzzo medievale. Quando nel 1969 apparve la prima trattazione generale della pittura medievale nella regione,34 Guglielmo Matthiae individuò in queste manifestazioni un’impronta artigianale derivata dalla costante ricerca di una concretezza popolare e frutto delle condizioni geografiche di un territorio che «non ebbe mai dei grandi maestri innovatori, ma piuttosto artisti operanti per ragioni ambientali alla maniera artigiana». Persuaso che un territorio montuoso non potesse produrre che una pittura provinciale, lo studioso riconobbe ad esempio nei maestri di San Pellegrino a Bominaco elementi come «una certa spregiudicata spavalderia paesana» o «una nobiltà paesana un poco pretenziosa», definizioni che non è detto che avrebbe usato se quelle pitture non si fossero trovate in montagna. Si tratta di un’interpretazione che godrà di ampia fortuna, dal momento che la troviamo più volte riproposta, fino all’affermazione di una sostanziale uguaglianza società agricola-montuosa/committenza locale-paesana/rappresentazione figurativa fresca e immediata:

Die Malerei der Abruzzen ist eklektisch und von verschiedenen Kunstrichtungen inspiriert. Trotzdem kommt es zu einem lokalen Stil mit typischen Merkmalen. Die der Bibel und der Legenden entnommen Szenen werden ohne Überhöhungen als etwas Natürliches betrachtet, und ihr Inhalt wird mit einfachen Formen verständlich gemacht. Die göttliche Welt ist im Bannkreis der menschlichen Erfahrung angesiedelt. Daraus resultiert eine ungebrochene Treuherzigkeit und eine sich aus vielen Einzelbeobachtungen speisende natürliche Frische der Schilderung.

Dal punto di vista del metodo, questo processo che definirei di periferizzazione storiografica della pittura abruzzese del Duecento non sembra però aver avuto connessione alcuna con lo sviluppo dei cosiddetti studi regionali. Questi ultimi, infatti, che devono esser fatti rientrare sotto l’etichetta più generale di storia locale, nascevano sulla spinta di istanze (fondate in buona parte su presupposti ideologici di radice marxista) volte ad analizzare programmaticamente i fatti anche dal punto di vista delle classi popolari e subalterne, delle periferie, dei contesti geografici e sociali estranei ai poteri dominanti.36 L’etichetta di periferico, di popolare e di montuoso mi sembra invece che sia stata applicata a una parte anche piuttosto consistente dell’arte e soprattutto della pittura medievale abruzzese in maniera del tutto autonoma da quella linea storiografica, privilegiando al contrario un’interpretazione dei fatti pittorici derivata da gerarchie di valore puramente estetiche: il bello, il nuovo, il moderno nelle città; il brutto, il rozzo, il paesano, il popolare, il dilettantesco nelle aree collocate topograficamente a qualche centinaio o a un migliaio di metri sul livello del mare, e tutto questo non senza immettere nel discorso storiografico anche il contraltare delle incursioni solitarie di artisti girovaghi qui giunti dall’altro lato delle Alpi (laddove spesso ci troviamo semplicemente di fronte a riferimenti formali di origine essenzialmente romana, importati da artisti romani o rielaborati localmente).
Anche a voler prescindere dalle questioni di metodo che pone questa lettura a lungo dominante negli studi, il dato di fatto ineludibile è invece che l’Abruzzo nel Medioevo fu tutt’altro che un territorio periferico. Dei molti studi che potrei citare in merito, ne scelgo uno da cui traggo un passo che per la sua chiarezza mi sembra esemplare: L’Abruzzo in nessun periodo della sua storia poté considerarsi regione isolata. Non poteva consentirlo, oltre tutto, la sua posizione geografica, che occupa la parte mediana della penisola, così che la sua funzione storica, nell’àmbito della storia nazionale, è quella di essere una regione di transito, una via obbligata tra N e S e tra O ed E […]. I corsi fluviali, le vallate, le vie tracciate all’interno e lungo la costa saranno i veicoli di penetrazione delle varie correnti culturali, linguistiche, di arte e di letteratura. 38 È proprio la situazione geografica dell’Abruzzo a impedire l’applicazione di un’interpretazione riduttiva della montagna abruzzese (quale, ad esempio, quella implicita nella concezione di Fernand Braudel riguardo all’area montuosa mediterranea, «mondo a parte dalle civiltà», privo «dei contatti e degli scambi fuori dai quali non c’è civiltà rinnovata»). «Nel caso dell’Abruzzo», infatti, «sono quasi inservibili le tradizionali categorie che fin qui hanno governato la riflessione storiografica relativa al Mediterraneo, e sono difficilmente applicabili senza correttivi anche quelle valide per il complesso del nostro Mezzogiorno», in quanto, come opportunamente e con serrate argomentazioni è stato messo in rilievo, la montagna in Abruzzo ha costituito e costituisce la ragione profonda della vita regionale. Nel seno di questa però la compartimentazione e lo spezzettamento delle cellule fisiografiche, a ben vedere, non si traducono affatto nell’isolamento, come Braudel e [Ignazio] Silone vorrebbero, se non a scala intraregionale. A scala interregionale, all’opposto, esse si convertono nella più energica immissione nello spazio abruzzese all’interno dei grandi circuiti economici e culturali mediterranei ed europei, oltre che italiani. Esemplare è la fondazione dell’Aquila, la nascita cioè, intorno alla metà del Duecento e nel cuore del dominio montano (ma appunto lungo la «via degli Abruzzi»), di un vero comune d’impianto borghese. La dialettica tra le diverse componenti prima di tutto geografiche e nel contempo economiche del territorio abruzzese non c’è dubbio che abbia segnato in profondità la storia dell’Abruzzo40, e continui a segnarla soprattutto in tempi recenti, ma per quanto la lettura in chiave popolareggiante e periferica abbia rappresentato una delle principali chiavi di lettura nella storiografia artistica sull’Abruzzo medievale, i primi decenni del nuovo Millennio stanno assistendo a un cambiamento lento ma radicale di questa prospettiva.

 

A cura di Cristiana Pasqualetti

Presentazione di Valentino Pace

Con una nota di Francesco Sabatini

Volume stampato con il contributo del
DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE – UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELL’AQUILA
con il sostegno di
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO PROVINCIA DELL’AQUILA
e con il patrocinio della
DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA NEGLI ABRUZZI

 

HASTAG #abruzzovivo #abruzzovivoborghi #abruzzovivonelmondo #abruzzovivoarcheologia #abruzzovivoarteecultura #abruzzovivoborghi #abruzzovivocronaca #abruzzovivoenogastronomia #abruzzovivoeventi #abruzzovivoluoghiabbandonati #tabruzzovivomistero #abruzzovivonatura #Civitelladeltronto #abruzzovivopersonaggi #abruzzovivophotogallery #abruzzovivoscienza #abruzzovivoscrivevano #abruzzovivostoria #abruzzovivoterremoto #abruzzovivotradizioni #abruzzovivoviaggieturismo #abruzzovivovideo #abruzzovivomarcomaccaroni






Potrebbe interessarti
Il museo archeologico di Atri
A Chieti la mostra su 15 cam...
All’Aquila la pedalata in ...
Il 16 agosto parte dall̵...
Le terre alte dell’Abr...
La figura di san Panfilo di ...
Hotel Vetta d'Abruzzo

Autore
Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

Lascia il primo commento

Lascia un commento