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L’Aquila Borgo Rivera

Il borgo della Rivera, all’estrema periferia meridionale della città storica, ma ancora all’interno della cinta trecentesca che la racchiude, è uno dei luoghi dell’Aquila in cui con più evidenza si avverte lo spessore della storia. Una storia il cui filo conduttore è la ricchezza d’acqua: l’acqua del fiume Aterno, che, scorrendo appena fuori dalle mura, irrigava gli orti e azionava le ruote dei mulini; e l’acqua delle numerose sorgive locali, utilizzata dagli opifici della lana e del cuoio, che alimentavano l’opulenza della città medievale. Porta Rivera metteva in comunicazione l’uno e l’altro mondo, reciprocamente complementari: la campagna, produttrice di vettovaglie, e la città, con le sue industrie e i suoi commerci. Ancora oggi, nonostante i segni della modernità sparsi nel paesaggio, le mura costituiscono una demarcazione netta tra l’ambiente rurale e quello urbano, che vengono qui a contatto senza sfrangiarsi l’uno nell’altro. Se il termine “borgo” viene altrove utilizzato per indicare espansioni della città oltre le antiche mura, il caso della Rivera è affatto diverso: per la vitale importanza delle sue risorse idriche essa è stata sempre parte integrante della città, fin dalla fondazione, di cui fu uno dei principali nuclei di aggregazione. Sul colle che domina il borgo, nel sito dell’odierno convento di Santa Chiara, sorgeva infatti il castello di Acculae (“le sorgenti”), da cui prese il nome la nuova città, fondata a metà del Duecento dalle popolazioni dei contadi di Amiternum e di Forcona, desiderose di liberarsi dal giogo feudale.

L’Aquila – Convento di Santa Chiara

Al tempo della rifondazione angioina dell’Aquila, dopo che essa era stata distrutta nel 1259 dal re svevo Manfredi, fu realizzata la celebre Fonte, simbolo dell’orgogliosa rinascita, dopo la prima catastrofe della sua storia. “La città nuova gioisce per la nuova fonte e anche per l’antico fiume… non ammirare l’opera, ammirane piuttosto i committenti, che il lavoro e l’onestà fanno essere coloni aquilani”. Così recita l’epigrafe latina murata sul frontespizio principale, che continua poi con le lodi del “probo” Lucchesino da Firenze, che fu prima assessore e poi capitano regio della città, cioè rappresentante locale dell’autorità di Carlo I d’Angiò. La lapide sottostante riporta la data d’esecuzione e la firma dell’artefice: “Nell’anno del Signore 1272 il maestro Tancredi da Pentima di Valva fece quest’opera”. L’assetto originale della fontana era tuttavia molto diverso da quello odierno, che è il risultato di una lunga serie d’interventi succedutisi nel corso dei secoli. Il nucleo originario, oggi inglobato nel prospetto principale, si sviluppava ad ali formanti tra loro un angolo molto ottuso, quasi piatto, e contava solo una quindicina di mascheroni porta getto, che rappresentano teste umane maschili e femminili e protomi animali “di altissima qualità plastica”, partecipe di una cultura artistica di ascendenza federiciana e toscana, probabilmente opera del Tancredi da Pentima nominato nell’epigrafe. Nel 1294, anno dell’incoronazione papale di Celestino V nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, fu realizzato il paramento murario a conci bianchi e rosa che sovrasta i mascheroni. Nel 1308 furono aggiunti due mascheroni; cinque, di stile tardogotico, risalgono alla prima metà del Quattrocento; dodici furono realizzati nel 1494 quando fu pure aggiunto, sopra la lapide commemorativa con l’iscrizione, lo scudo con lo stemma civico, opera rinascimentale di finissima fattura. Di particolare rilievo furono i lavori realizzati durante il governatorato di Margherita d’Austria (1571-1584), figlia naturale dell’imperatore Carlo V, quasi certamente su progetto di Geronimo Pico Fonticulano, architetto e urbanista di vasta cultura, ideatore di un ambizioso programma di rinnovamento della città, che solo in parte avrebbe trovato effettiva realizzazione.

L’aggiunta dei frontespizi laterali di settentrione e mezzogiorno, forse ispirata ai progetti elaborati da Michelangelo per il Campidoglio, trasformà la fontana in una vera e propria piazza, a testimonianza dell’assoluta centralità ancora rivestita da questa importante opera pubblica, a ben tre secoli dalla fondazione. Dal 1575 al 1578 furono eseguiti trentatré nuovi mascheroni e aggiunta la seconda vasca al prospetto centrale. Tra l’aprile del 1582 e il giugno 1583 fu realizzato l’accrescimento del prospetto principale, costruita la parte inferiore di quello di sinistra (Nord), l’intero prospetto di destra, addossato alle mura civiche, e furono scolpiti dall’artefice locale Alessandro Ciccarone gli ultimi ventisei mascheroni, di ispirazione fantasiosa e grottesca. Le trasformazioni ideate dal Pico non rispondevano solo a finalità estetiche, ma prevedevano anche l’utilizzo della fontana come pubblico lavatoio. L’evidente discontinuità rispetto al passato – gli statuti trecenteschi vietavano infatti tassativamente ogni uso della Fonte che potesse intorbidarne o inquinarne le acque – era indizio di un ripiegamento della città sulle concrete necessità del momento, una volta tramontate le antiche libertà comunali, o forse anche di un’insolita sensibilità sociale nei confronti dei bisogni quotidiani delle donne del popolo. In seguito la fontana fu più volte riparata e restaurata. Nel 1744 ne fu selciato il piazzale. Nel 1871 si aggiunsero le sei cannelle prive di mascherone all’estremità destra del fronte sud, per raggiungere il numero di novantanove, quanti i castelli che avrebbero partecipato, secondo una tradizione tarda e priva di fondamento storico, alla fondazione della città, da cui la denominazione di “Fontana delle Novantanove Cannelle”, prevalente nell’uso quotidiano su quella originale. Nel 1934, infine, fu rifatta la selciatura del piazzale e furono utilizzate a guisa di recinzione le cancellate in ferro battuto originariamente collocate sul cornicione mediano della facciata di Santa Maria di Collemaggio. Di fronte alla fontana sorge la chiesa di San Vito, innalzata tra la fine del secolo XIV e l’inizio del XV dai cittadini aquilani oriundi del castello di Tornimparte, e ceduta nel 1599 ai Fatebenefratelli, perché la adattassero a ospedale. Le acque della Rivera erano infatti utilizzate anche a scopo sanitario, soprattutto in occasione di epidemie, come testimoniano alcune impressionanti testimonianze della pestilenza del 1656-1657, in cui trovò la morte il 40 per cento della popolazione aquilana. Durante il contagio la chiesa di San Vito fu adattata a lazzaretto per il ricovero degli appestati, e il piazzale antistante fu teatro, sul declinare del morbo, della cosiddetta “spurga”, cioè della sterilizzazione mediante bollitura degli indumenti e delle suppellettili domestiche dell’intera cittadinanza.

 

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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