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Terra madre di Giovanni Angelucci

La Majella, la montagna madre, monte e paesaggio, forza e simbolo. È il cuore dell’Abruzzo, che custodisce infinite storie e fa innamorare. Per le sue genti è sacra, tanto generosa quanto selvaggia, ma principalmente è donna e le è riconosciuta la maternità della bellezza regionale. È fortunato chi la guarda per la prima volta, ma la forza magnetica di questa terra è in grado di far cambiare il percorso prestabilito anche a chi la frequenta abitualmente, invitando a prendere direzioni sconosciute. Dove si è perso, senza mai uscire dai confini del Parco Nazionale della Majella, se non per rapide deviazioni obbligatorie, scoprendo i piaceri della gola e di luoghi resi magici da racconti e storie di coltivatori e pastori nomadi, di eremiti che hanno trovato nel silenzio della montagna l’essenza della vita.

IL SIGNORE DELLE API

Dall’alto del castello di Semivicoli (XVII- XVIII secolo), adibito all’ospitalità più raffinata, con 11 camere e suite, l’occhio si apre sulla Majella e sul mare di vigneti della famiglia Masciarelli, storico nome della viticoltura abruzzese, che ha acquistato nel 2004 l’edificio e provveduto a un restauro sapiente. Guardiagrele, “la città di pietra”, è invece annunciata da un paesaggio aspro, ai margini di un mondo di gole e forre, valli silenti sormontate da guglie e creste scolpite dal vento. Questo bel paese della provincia di Chieti vive di eccellenze enogastronomiche e di produzioni altrove scomparse, come il miele, di cui Alfonso Bianco è memoria storica e artefice. La sua è una vicenda antica, che rischiava l’oblio, e che racconta di alveari trasportati su carri lungo la Val di Sangro già prima della Grande Guerra per il raccolto del miele di montagna. Bianco lavora in simbiosi con le sue api (“quando mi arrabbio vado a parlare con loro”, racconta) e controlla che tutto sia pronto per la stagione produttiva. Poi sposta gli alveari lungo la Majella per ricercare le migliori infiorescenze acacia, erba medica, sulla, tiglio e castagnoe posiziona le arnie. Il risultato è un miele di altissima qualità. In centro, lungo la via principale, la Pasticceria Lullo rende onore, ogni giorno e da tre generazioni, al lavoro iniziato un secolo fa da Filippo Palmiero sfornando le celebri Sise delle monache: un dolce (tre protuberanze spolverate di zucchero a velo) fatto di soffice pan di Spagna farcito con crema pasticciera, secondo una ricetta segreta centenaria. “Sembra la crema che faceva mia nonna!”, si sente spesso dire da chi entra nel piccolo negozio, ma ciò che più affascina è l’aria dei tempi andati.

Nella bottega lavora Emo Lullo, laureato in filosofia e discendente di un’eccellenza irripetibile altrove. Un dedalo di stradine circondate da boschi, vigneti e uliveti, porta invece alla dimora Masciantonio. È in località Caprafico, terra di ulivi a perdita d’occhio e di olive eccellenti, che la famiglia di olivicoltori ha iniziato a lavorare nel 1948 creando, con il primo frantoio familiare, del 1874, un ottimo extravergine d’oliva. Da lì in poi tutto avviene in casa, mantenendo una lavorazione tradizionale e biologica. Le varietà coltivate sono le autoctone Gentile di Chieti e l’antica Incosso, presente solo su questa fascia pedemontana. L’olio ha una spiccata impronta territoriale e, all’olfatto, ricorda la mandorla fresca dimostrando, in bocca, eleganza ed equilibrio di note amare e piccanti. In questo aspro lembo d’Abruzzo tradizionale c’è anche la produzione del farro, antico alimento capace di resistere ai climi freddi a cui la zona di Guardiagrele, a quasi 600 metri di altitudine, è abituata. Qualche cascina più in là si fa la conoscenza di Giacomo Santoleri, che coltiva antiche varietà vegetali con il sorriso di chi ha salutato la vita cittadina per dedicarsi all’agricoltura biologica. In un casino ottocentesco, costruito dalla famiglia, Santoleri lavora la rara Ma’Kaira, pasta lunga ottenuta da farina di farro e orzo mondo, oltre a lenticchie, ceci, olive e farine.

In Abruzzo ci sono molti ristoranti che custodiscono l’autentica tradizione enogastronomica. Villa Maiella è uno di questi. Negli anni Sessanta era una semplice fiaschetteria; oggi è il regno della famiglia Tinari, capeggiata da Peppino, impareggiabile anfitrione che incarna alla perfezione la figura dell’abruzzese affabile e di nobile animo. Le ricette sono preparate secondo tradizione con mamma Angela che, instancabile, continua a tirare a mano la pasta alla chitarra, e i due giovani figli Arcangelo e Pascal, rispettivamente in cucina e in sala, tornati qui dopo aver fatto esperienza nei migliori ristoranti stellati in Italia e all’estero. I sapori sono decisi, le tecniche rodate (imperdibili, l’agnello e la pasta ruvida, di rara fattura), la conoscenza dei prodotti (specialmente della carne e dei suoi tagli) smisurata e le materie prime sicure, provenienti dalla fattoria di proprietà. Villa Maiella è una tavola stellata, ma familiare, e conserva la più vera identità abruzzese.

IL PARCO DELLA FEDE E DELLE AQUILE

A solcare la Majella sono 700 chilometri di percorsi, dai più arditi (il Sentiero del Parco, con panorami che spaziano dal Gargano al Conero) alle passeggiate prossime a borghi di religiosa, solitaria, bellezza. Gli eremi, spesso costruiti nelle zone più impervie, sbucano non lontano dalla “civiltà”, abbarbicati tra balze rocciose, pini mughi, faggete e grotte. Non è molta, infatti, la distanza da Fara San Martino, il piccolo borgo di origine longobarda, patria della pasta, all’abbazia di San Martino in Valle, facilmente raggiungibile dalle sorgenti del fiume Verde. Basta percorrere la larga strada sterrata che, dall’area parcheggio antistante le sorgenti del fiume, porta, con alcuni tornanti, all’imbocco delle Gole di San Martino e allo spettacolare canyon che introduce all’abbazia e a una delle valli più maestose del Parco. L’ambiente è aspro e roccioso, di natura carsica. Sulla neve compaiono le tracce del lupo, fra i faggi si scoprono caprioli e cervi e l’aquila, che nidifica nei valloni più aspri, si lascia spesso ammirare. Lungo il tragitto, verso Pacentro, riconoscibile dalle torri medievali e dal castello, si può imboccare la strada statale fino a Palena. Da qui una splendida faggeta porta in otto chilometri al santuario della Madonna dell’Altare, a quasi 1.300 metri di altezza, altro simbolo di chi fece della Majella il proprio luogo spirituale. La sosta gourmand è da Carmine Cercone, che accoglie i viandanti nella sua storica dimora di Pacentro. La Taverna de Li Caldora propone le migliori interpretazioni della cucina agropastorale, opera della moglie e cuoca Teresa. I ravioli di ricotta di capra, la selvaggina in padella, i piatti a base di tartufo (in stagione) sono grandiosi, soprattutto se serviti nella veranda che affaccia sull’intera vallata. Tra le mura di questa casa cinquecentesca si può fare la conoscenza di uno degli ultimi baluardi della vita pastorale della Majella: Emilio Ciccone che, dallo stazzo di Passo San Leonardo, scende in paese per vendere i formaggi fermandosi, di tanto in tanto, alla Taverna. Realtà selvaggia, la sua. Pastore dalla nascita, come il padre e il nonno, ha 57 anni e i boschi sono la sua casa, del fratello Francesco e delle 300 capre allevate. Produce formaggi caprini e una ricotta eccellente, in quantità limitata (cell. 333.17.983.72). Lasciata Pacentro, si sale in mezz’ora verso i borghi di Pescocostanzo e Rivisondoli, presepi viventi a 1.400 metri di altezza, frequentati, d’inverno, per lo sci e, durante la bella stagione, per il trekking estivo lungo i numerosi percorsi montani. Ma c’è anche chi, in questa zona, viene esclusivamente per gustare i piatti de La Corniola, il ristorante in mano al trio familiare under 40 (Concezio e Lucia in cucina, Barbara in sala), che ama studiare nuove tecniche per applicarle alla tradizione.

Ristorante la Corniola

Bastano ricette come il baccalà mantecato, lo spaghettone all’uovo, anatra, finocchio e pecorino o il lombetto di coniglio per capire che la loro è una cucina di sostanza e sentimento, in cui gli ingredienti nostrani vengono esaltati dalla semplicità. D’estate, tra le vie lastricate di Pescocostanzo, dove il piccolo e intimo Gatto Bianco accoglie in camere di charme, non è raro imbattersi nelle donne del posto intente a lavorare al tombolo, vestite, come un tempo, con l’abito tradizionale arricchito da preziosi pizzi. La strada che corre verso il bosco di Sant’Antonio porta alle fattorie che producono e vendono formaggi e salumi, come l’azienda di Andrea Spica, dove assaggiare il caciocavallo e gli yogurt, o quella di Emidio Sciullo, le cui mozzarelle sono davvero speciali.

PAROLA D’ORDINE SPERIMENTARE

A questo punto è d’obbligo raggiungere Castel di Sangro per regalarsi un’esperienza nel ristorante di Niko Romito. Lo chef italiano più in forma del momento ha creato, con la sorella Cristiana, un polo gourmet a 360 gradi: Casadonna, un convento del ‘500 con camere minimaliste, un ristorante, l’osannato Reale, una scuola di formazione. Ma Casadonna non è solo una location da sogno, è la casa di un cuoco che ha reso grande il suo Abruzzo. Romito è rimasto qui e, nonostante fama (3 stelle Michelin) e talento, è legatissimo alla sua terra. “Lavorare nei luoghi in cui sono cresciuto è un lusso e un’emozione, soprattutto quando, di ritorno verso casa, scorgo la cascina di mio nonno, dove ho trascorso l’infanzia giocando con le galline. Le mie prime esperienze gastronomiche nascono lì”.

Casadonna, un ex convento del ‘500

Una cucina concreta (anche nel prezzo: il menu degustazione costa 130 € e prevede sette portate), semplice e determinata, che rende onore all’essenza solida e sincera della Majella. Un esempio? La verza arrosto fermentata, un piatto che gioca sulle aspettative e sulla ricerca della complessità utilizzando prodotti poveri e contadini. L’ultima tappa di questo itinerario è affidata a Leonardo Pizzolo, vignaiolo di assoluto valore intellettuale, capofamiglia della virtuosa azienda Valle Reale di Popoli, in provincia di Pescara. La sua avventura è iniziata dal recupero di un vecchio vigneto di Montepulciano d’Abruzzo, rinvenuto nella proprietà all’interno della Valle Reale, circondata dalle montagne. L’idea era chiara sin dal principio: creare vini nitidi in grado di esaltare i vitigni autoctoni, sfruttando 46 ettari coltivati a regime biologico. Le sue vigne danno una delle migliori versioni di Montepulciano e Trebbiano: profumi sottili e nitidi, vini eleganti, agili e audaci. In grado di conquistare chi è capace di apprezzarne le più profonde sfaccettature. Del resto ci si può emozionare anche davanti a un buon bicchiere di rosso, in grado di raccontare una storia, oltre che al cospetto della montagna madre.

 

Testo: Giovanni Angelucci
Foto: Enrico De Santis

 

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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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