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Dalle montagne al mare. I confini come rifugio, riscatto e via di fuga

 

Estratto dal testo di Di Annalisa D’Ascenzo

La regione geografica che maggiormente interessa corrisponde alla porzione centrooccidentale del territorio dell’odierna provincia di Teramo, compresa nell’arco descritto in senso sudovest-nordest dai rilievi appenninici settentrionali della cordigliera abruzzese fino al Subappennino aprutino , ma, seguendo quello che era il confine fra i due stati, essa si prolunga alla pianura costiera che degrada verso l’Adriatico e termina alla foce del Tronto. Per procedere nell’analisi ci serviremo della carta che, nel fondo seicentesco, è quella con la scala minore e che rappresenta quasi per intero il territorio in esame, rimanendone fuori solo la fascia litoranea, dunque quella a quote più basse. La tavola, interamente manoscritta ed acquerellata, è orientata con il nord a destra e risulta ruotata di oltre 90° rispetto al reale. Il cartiglio, posto in alto a destra, riporta oltre alla firma del cartografo la dicitura: Situacion De la Montaña de Roseto: Delas Valles De San Juan y Castellana: Con Sus Confines en la Provincia de Abruzzo Ultra (Año 1684).

Prima di affrontare il tema proposto è necessaria un’osservazione introduttiva: il confine di cui si parlerà in questo saggio è sempre un confine naturale, basato sull’idrografia e sull’orografia della zona, elementi che dominano la carta storica citata ed anzi rappresentano le componenti di base su cui essa è stata delineata. Come è possibile notare nell’elaborazione dell’immagine che segue, la rete idrografica è facilmente riconoscibile: da sinistra a destra si trovano il fiume Vomano (Umano F.) ed il suo affluente di destra, il Mavone, segue il Tordino con gli immissari Vezzola e Fiumicino (quest’ultimo sdoppiato erroneamente intorno a Campli), poco oltre si nota il primo tratto del Salinello ed infine il Tronto, con in evidenza il suo affluente Castellano (Castellana F.) che dopo Ascoli Piceno piega verso l’interno nell’angolo superiore. L’individuazione dei rilievi è ugualmente chiara, anche se meno scontata nei singoli casi. Le uniche vette con oronimo sono, in alto a sinistra, quelle del Gran Sasso (Monte Corno) cui seguono, oltre la valle del Vomano, montagne dal disegno schematico che rappresentano il complesso dei Monti della Laga.

Un confine molteplice
Il confine si presentava geograficamente articolato, tra vette e corsi d’acqua, perché, come accennato, si snodava tra le cime dell’Appennino compreso tra il versante nordoccidentale del Gran Sasso e quello meridionale dei Monti della Laga, proseguendo verso Ascoli da dove poi coincideva con il tratto finale del corso del Tronto. Ma anche dal punto di vista politico si trattava di una delimitazione complessa, in quest’area venivano infatti a sovrapporsi varie confinazioni (Fig. 2): quella già ricordata fra i due stati, ossia il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio, che dal Gran Sasso alla città di Ascoli correva lungo le cime; il limite fra l’Abruzzo Ultra Primo e Secondo segnato dai rilievi appenninici3 ; in ultimo i confini interni alla provincia dell’Abruzzo Ulteriore Primo, ripartizioni subregionali che emergono dai materiali cartografici e documentari. Prendendo sempre come riferimento la carta storica spagnola, oltre alle valli solcate dagli omonimi fiumi, possiamo rintracciare le denominazioni riportate nel titolo (demarcate nella tavola con il tratto puntinato ed una linea marrone): la Valle Castellana, che comprende l’area a sud del torrente Castellano, tra le cime del Monte Teglia (1136 m slm) ad est, la Montagna dei Fiori (1814 m) e la Montagna di Campli ad ovest (con i 1720 m del Monte Foltrone); la Valle di San Giovanni sulla riva destra del Tordino e la sovrastante Montagna di Roseto, la cui indicazione sembra delimitare il territorio montuoso posto oltre i 900 m d’altitudine, dalla cima più bassa del Monte Calvario (941 m) e i centri circostanti, fino ai 2458 m del Monte Gorzano. I confini naturali e politici che abbiamo ricordato avevano segnato profondamente anche la proprietà feudale in Abruzzo, caratterizzata nel Seicento dalla predominanza di grandi feudatari che controllavano vasti possedimenti, sia nelle varie regioni del Regno che oltre i suoi limiti territoriali. Fra questi alcuni provenivano da Roma (Colonna, Orsini, Savelli, Farnese) o da Napoli (Cantelmo), su tutti però spiccavano per importanza gli Acquaviva conti di Conversano, una casata di origine marchigiana che possedeva il Ducato di Atri, il feudo più importante dell’Abruzzo teramano sia per l’estensione, che per la lunghezza e stabilità della proprietà nelle mani della stessa famiglia

Il confine come rifugio
La situazione geopolitica e le difficili condizioni economiche del vicereame napoletano (a quel tempo il maggiore contribuente mediterraneo della corona spagnola, cfr. Sabatini G., 1997), avevano alimentato in Abruzzo il fenomeno del banditismo e la comune ostilità al dominio asburgico aveva portato alla creazione di stretti rapporti fra i feudatari ed i capobanditi, quasi un demandare dei primi ai secondi il controllo delle proprietà terriere. Tale complessità geografico-politica e la condizione feudale accennata offrivano diverse soluzioni agli uomini ricercati dalla legge. Le montagne e i boschi dell’Appennino centrale e del Subappennino erano un ambiente ben conosciuto e frequentato dai banditi che, grazie alla dimestichezza e sicurezza con cui riuscivano a muoversi anche attraverso i passi ed i valichi più impervi, erano divenuti un naturale rifugio, inattaccabile dai soldati regi, male organizzati e privi di qualsiasi conoscenza del territorio. La vasta zona del confine posta a quote più alte si delinea quindi nei documenti come un luogo sicuro, di impunità, in cui le bande trovano rifugi attrezzati e vettovaglie, dove le eventuali condanne non potevano essere rese esecutive. A ciò non erano estranei i rapporti di collusione intrecciati con le autorità pubbliche, con gli uomini che ricoprivano nella provincia i più alti incarichi politici e giudiziari 5 . I banditi inoltre, protetti da appoggi altolocati e stando arroccati sulle loro montagne, nei due secoli del dominio spagnolo avevano costruito una serie di fortificazioni e di torri da cui controllavano la regione, muovevano per le scorrerie e dove tornavano con i frutti delle rapine. I capobanditi possedevano anche più di un fortilizio dove ritirarsi al sicuro, alcuni di questi oltre ad essere indicati nelle carte secentesche a scala più piccola (si veda ad esempio la figura che segue) vengono mostrati singolarmente nel dettaglio in pianta ed in alzato in apposite tavole. Bisogna poi ricordare che, oltre a rappresentare luoghi riparati, queste roccaforti e – ra no divenute anche punti di attacco contro le truppe regie raramente inviate; quando venne decisa la campagna militare, per aver ragione delle bande asserragliate, fu necessario far giungere l’artiglieria pesante da Pescara, il che, ad esempio, comportò l’apertura di passaggi adatti al trasporto dei cannoni 6 . Con la Prammatica de exulibus vennero stabilite dure norme contro i «Banditi, Scorridori di Campagna e fuorgiudicati» ed i loro protettori, «Ricettatori, Ausiliatori e Corrispondenti», nel testo almeno due punti dell’editto riguardano espressamente le roccaforti citate ordinando ciò che segue: «Comandiamo parimente che dopo la pubblicazione della presente Pramatica, fra il termine di giorni trenta si debbano demolire e mandare a terra tutte le Torri e Case forti di campagna site e poste dal fiume Humano in sù, e le Torri forti, benché nell’habitato che stanno a i confini della Valle Castellana e della Montagna di Roseto, e che da hoggi avanti nessuno ardica, né presuma redificarle, né fabricarle di nuovo, senza espresso Ordine Nostro e deé nostri successori in scriptis, sotto pena di morte naturale e di perdita di tutti loro beni. Et acciochè i detti Banditi et altri inquisiti non possano sostenersi nelle Provincie d’Apruzzo, ordiniamo, et espressamente comandiamo che nelle masserie, pagliare, mandre, case in campagna, et in tutti li luoghi aperti di dette Provincie, dal mese di Aprile sin’alla fine di Settembre, non si possa tener vitto, né qualsivoglia sorte di vettovaglie, se non quanto basta a gli habitatori e fatigatori per un solo giorno, sotto pena di tre anni di galera da eseguirsi irremissibilmente» (Editto contro i banditi abruzzesi, 1684). Il dato nuovo ed interessante che emerge dai documenti riguarda la condizione agiata dei capobanditi, i quali potevano vantare varie proprietà distribuite sul territorio, caratteristica che può spiegare meglio la comunanza di interessi fra questi piccoli possidenti ed i grandi feudatari locali. A tale proposito nelle fonti vengono ricordate case, situate nei centri abitati o sparse nelle campagne e sui rilievi, masserie, vigne e campi coltivati, cappelle isolate, pascoli.

Il confine come alternativa economica
La frontiera rappresentava inoltre il luogo dove condurre attività economiche “alternative”, il passaggio da uno stato all’altro permetteva infatti di portare avanti lucrosi contrabbandi. Le collusioni fra capobanditi e feudatari romani e marchigiani, che intrattenevano stretti rapporti con le loro terre di origine e sfruttavano a proprio vantaggio le possibilità di spostamento fra i feudi posti dentro e fuori il Regno di Napoli, favorivano le attività dei contrabbandieri, ben tollerate – se non sostenute − dalla corte di Roma. Ai fuorilegge, naturalmente, erano assicurati appoggi, nascondigli e richieste di perdono per rientrare nei paesi di provenienza nel caso in cui fossero stati colpiti da una condanna. Oltre a mettere a profitto il passaggio di potere legato al confine, i banditi gestivano l’economia di ampie zone dell’Abruzzo. Centri abitati, piccoli e grandi, erano sotto il controllo dei capi, nella zona di cui ci occupiamo i più potenti e temuti fra questi erano i Colaranieri: Giuseppe il centenario (compagno e amico di Giulio Pezzola, morto a 110 anni nel maggio del 1683), il figlio Giovanni Battista, detto Titta, ed il nipote Giovanni Berardino (o Gianberardino), cui si affiancavano il famigerato Sante di Giovanni Lucidi alias Santuccio di Froscia, nipote del più famoso Marco Sciarra, e Domenico Antonio Mancecchi detto “Durante”. Lungo il confine nordorientale comandavano Salvatore Bianchini, Ignazio Sbraccia ed ancora Durante, nelle terre del marchese del Vasto imperversavano Sgarrone e Mezzabotta

Il confine come via di fuga
Come abbiamo finora chiarito, il confine rappresentava quasi un’era extraterritoriale dove trovare rifugio, ma nei casi peggiori poteva divenire via di fuga perché, sia attraverso gli impervi passi di montagna che le colline del Subappennino aprutino, oppure oltrepassando la valle del Tronto e le pianure costiere adriatiche, i banditi abruzzesi accedevano ad ambienti conosciuti e familiari dove potevano contare su appoggi ed aiuto. Le fonti storiche ad esempio sono ricche di racconti di rocambolesche fughe di briganti, assediati dalle milizie regie, attraverso passi e dirupi, d’estate e d’inverno. Molti episodi citati nelle cronache, alcuni anche divertenti, chiariscono perfettamente la spavalderia e la sicurezza di impunità dei caporibelli più famosi . Che questo diversificato ambiente rappresentasse il luogo ideale dove rifugiarsi è testimoniato anche dal fatto che fosse mèta di fuggitivi non soltanto abruzzesi, ma anche marchigiani, romani e napoletani. Qualche luogo di provenienza dei briganti catturati, estrapolato dai lunghi elenchi pubblicati da Domenico Colonna, conferma che il confine in oggetto poteva essere una via di fuga da e per il Regno di Napoli. Tra gli uomini schedati troviamo originari delle varie regioni del viceregno, oltre naturalmente alla maggioranza nata nei centri dell’Abruzzo Ultra e Citra, essi venivano da: Terra di Lavoro, Campania (Avellino), Puglia (Barletta), Calabria e Sicilia. Altri arrivavano dallo Stato della Chiesa: Alatri, Poggio e Poggio San Giovanni, la Marca, Macerata, Talvachia dallo Stato d’Ascoli, mentre alcuni vengono definiti genericamente Marchisciani. Si segnalano anche sparuti casi singoli di banditi originari del Piemonte, della Corsica e della Spagna (cfr. Colonna D., 1686 e 1687).

Il confine/confino come riscatto sociale
Il confine, o meglio il confino, poteva divenire addirittura mezzo di riscatto sociale, perché i capobanditi indultati nei casi peggiori non soltanto venivano inviati a combattere per la Corona (ad esempio all’“estero” nella Repubblica di Venezia) per un tempo assai inferiore alla pene a cui scampavano nel Viceregno, ma dopo il servizio reso tornavano riabilitati e liberi nelle terre d’origine. Il marchese del Carpio, che conosceva bene la politica di compromessi portata avanti dalla corte spagnola, insisteva per modificarla e infliggere pene severe e reali, ma i Consigli, che temevano la reazione della nobiltà del viceregno e il costo di eventuali sollevazioni, insistevano per rispettare gli accordi presi in precedenza con i banditi, che permettevano agli indultati di evitare la galera e di non essere mandati troppo lontano. Il viceré riteneva più opportuno inviare i banditi nei Presidi fuori dall’Italia; essi, infatti, fino a quel momento erano rimasti nelle province, con «notable prejuicio del servicio de V.Mg.d», oppure, i più pericolosi, avevano soggiornato per un massimo di due anni nei Presidi toscani 11. A giudizio del marchese essi avevano goduto di condizioni troppo vantaggiose. Egli proponeva perciò di portare a tre anni il servizio e di inviarli quantomeno in Sardegna, anche se questa appariva una soluzione pericolosa «por abundar tanto aquella isla de ellos» (Estado, Leg. 3313, fol. 108). Meglio sarebbe stato allora continuare a consentire che si imbarcassero con i veneziani impegnati nella lotta contro i turchi, soluzione che permetteva ai banditi di allontanarsi dal Regno con il consenso del sovrano, ma senza sottomettersi all’autorità spagnola, passando al servizio della Repubblica di Venezia tramite l’interessamento dei ministri del papa. Le consulte testimoniano lo scontro continuo tra il viceré e la corte madrilena. Il primo riuscì ad ottenere buoni risultati, particolarmente sulla componente più debole del binomio banditi-feudatari, a parte qualche raro e rincresciosissimo caso di grandi personaggi imprigionati e processati; il re ed i consigli, per la loro parte, salvarono dallo scandalo i maggiori dignitari implicati ed evitarono insurrezioni (ciò non salvò però la monarchia di Carlo II ormai giunta praticamente al termine del suo potere in Italia). A conclusione della dura campagna militare sferrata del marchese del Carpio i banditi vennero realmente ridotti in numero e forze, molti si consegnarono al Preside a Teramo (tra questi Antonio Sbraccia e Gio. Berardino Colaranieri); Santuccio, Flamminio Bernardi e Antonio Tripone, con quaranta compagni ciascuno, decisero di imbarcarsi per Venezia, ma come era nella prassi e beffardamente, sotto il comando di «uno degli officiali maggiori di detta repubblica», il duca di Mantova, Santuccio venne nominato capitano, suo fratello Giovanni alfiere e Cicconetto tenente

 

Bibliografia
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Informazioni su Marco Maccaroni 993 articoli
Classe 1956, innamorato di questa terra dura ma leale delle sue innevate montagne del suo verde mare sabbioso dei suoi sapori forti ma autentici, autore, nel 2014, del sito web Abruzzo Vivo

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