Transumansa -Foto da Radiolaquila
L’Abruzzo è ancora troppo poco apprezzato (purtroppo n.d.r), ma chiunque ne parli nomina l’arrosticino. Tutti lo conoscono e lo hanno assaggiato almeno una volta. A tratti più famosa di D’Annunzio, questa semplice pietanza a base di pecora è diventata il piatto simbolo della genuina cucina regionale, ottimo per una rimpatriata e come benvenuto per chi arriva in questa terra di cuore.
Spesso, però, si trascura la storia di questo protagonista dello street food, e soprattutto la strada che ha dovuto fare. Un percorso più che una strada: quello dei tratturi, le lunghe vie battute dagli armenti e dalle greggi durante la magica transumanza. Le sue origini sono da ricondurre proprio ad una fredda notte d’inverno, quando alcuni pastori con le greggi furono costretti a deviare dal tratturo che li conduceva all’alpeggio verso l’abitato di Civitella Casanova (Pescara) per trovare un riparo. Qui furono obbligati a cibarsi delle loro pecore, quelle più vecchie, cotte a pezzetti sui carboni. Tornata la bella stagione alcuni rimasero in zona facendo di necessità virtù, e cominciando a vendere questi bocconcini di pecora già allora molto apprezzati. Soltanto più avanti ci fu il passaggio allo spiedino, con i tocchetti di carne infilzati in piccoli rami (al tempo erano i ceppetti di sanguinella, un arbusto locale) e venduti nei paesi limitrofi in occasione di fiere e festività.
Con loro c’è chi fortunatamente continua a credere nella propria terra come Marco D’Antuono, produttore di squisiti arrosticini e ristoratore nella sua Osteria Macalusa, che da poco ha avviato un progetto con l’allevatore Mauro Di Zio e il giornalista ed esperto Giorgio D’Orazio: «Abbiamo deciso di ripercorrere a ritroso le tappe della produzione dell’arrosticino, realizzandone una tipologia che rispecchi la tradizione a partire dalla materia prima, cioè la carne di pecora locale ingrassata e frollata adeguatamente. Abbiamo scelto la razza Merinizzata italiana (evoluzione della Sopravissana con la Gentile di Puglia) che raccoglie la qualità migliore. Ad oggi il gregge conta 250 capi ed è alimentato con il fieno del territorio». Di più, «per fa sì che sia davvero l’autentico arrosticino abbiamo deciso di usare i rami di sanguinella, come una volta», raccontano Di Zio. Il progetto è nato meno di un anno fa con l’obiettivo di ridare all’arrosticino il prestigio che merita e a Civitella Casanova la paternità del prodotto. Per valorizzarlo e preservarlo è anche recentemente nata l’Associazione regionale produttori arrosticino (con 18 aziende aderenti) che mira ad ottenere il riconoscimento del marchio Igp (Indicazione geografica protetta) con tanto di disciplinare. «Questo passaggio – spiega il Presidente Lorenzo Verrocchio – aprirebbe risvolti eccezionali come la valorizzazione territoriale, l’incoming turistico, la riconoscibilità, la garanzia per i consumatori, la tutela della storia del territorio e di un settore economico sostenendo le imprese agricole locali». La domanda però sorge spontanea: se le carni utilizzate restano importate, ha senso un Igp? Si può fare di più? Ormai vengono prodotti arrosticini in tutta Italia e anche all’estero, ma il prodotto abruzzese presenta standard di qualità e di processo delle lavorazioni che non sono stati ancora raggiunti fuori dai confini regionali, aspetti che lo rendono riconoscibile come prodotto tipico e che vanno tutelati, con l’Igp appunto, indipendentemente dalla provenienza delle carni. L’auspicio, però, è di riuscire ad avere un giorno la Dop (Denominazione d’origine protetta) per l’arrosticino d’Abruzzo in modo da avere un prodotto 100% locale. Un progetto che al momento pare però più che altro solo un sogno
Articolo di Giovanni Angelucci
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